99 DIFFERENZE TRA L’ORTODOSSIA E IL CATTOLICESIMO ROMANO

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NDICE DEGLI ARGOMENTI:
Introduzione
Adorazione eucaristica
Agostino di Ippona e la sua teologia
Apparizioni mariane
Assunzione di Maria
Bacio rituale
Banchi e sedie
Battesimo
Battesimo d’emergenza
Calendario
Canoni
Canonizzazioni
“Cattolica”: il senso del termine
Carattere sacramentale
Cesaropapismo
Chiesa docente e discente
Chiese sorelle
Clero sposato
Comunione chiusa
Comunione sotto le due specie
Concili di riunione
Concilio ecumenico: quali requisiti?
Confessione
Decanonizzazioni
Devozione al Sacro Cuore
Devozioni medioevali
Diaconato permanente
Diaconesse
Digiuno e astinenza
Digiuno eucaristico
Diritto canonico
Divorzio e secondo matrimonio
“Due polmoni”
Durata della Liturgia
Epiclesi eucaristica
Espiazione vicaria
Essenza ed Energie
Fede e ragione
Festività alterate
Filioque
Funzioni cantate
Funzioni “speciali”
Giuridismo
Icone e sculture
Immacolata Concezione
Infallibilità papale
“In Persona Christi”
Libri liturgici
Lingua vernacolare
Liturgia
Liturgia”ortodossa” o “bizantina”?
Massoneria e fede cristiana
Meditazione
Ministri Straordinari dell’Eucaristia
Ministro della Cresima
Ministro del Matrimonio
Missione
Movimento carismatico
Musica ecclesiastica e strumenti
Numero dei Sacramenti
Ordini cavallereschi
Ordini Maggiori
Ordini religiosi e monachesimo
Pane eucaristico
Padri della Chiesa
“Papa”: un titolo non esclusivo
Pasqua e le altre festività
Peccato e caduta dell’uomo
Periodi di digiuno
“Per molti”, o “per tutti”?
Pneumatologia
Precetto festivo
Preparazione alla Santa Comunione
Primato di giurisdizione universale
Professione monastica
Purgatorio
Quarto matrimonio
Rasatura e tonsura del clero
Ricezione dei convertiti
Riunione dei cristiani
Roma antica e moderna
Rosario
Sacramenti di iniziazione
Saluto di pace
Scioglimento del matrimonio
Scolastica
Sedi apostoliche
Segno della croce
Senso del mistero
Sviluppo dogmatico
Teologia
Titoli papali
Transustanziazione
Uniatismo sugli altari
Unicità della Liturgia
Unità e uniformità
Unzione degli infermi
Validità dei sacramenti
Venerazione delle icone
Vetrate istoriate
Conclusioni
Crediti e ringraziamenti

Introduzione
Nella nostra qualità di ortodossi italiani, ci siamo sentiti proporre più di una volta la domanda “ma in che cos’è che siete differenti dai cattolici?”
Trattandosi di una domanda piuttosto generalizzata, talvolta ce la siamo sentita porre per mera curiosità, senza un reale desiderio di comprensione. Ma spesso, dietro questa richiesta apparentemente banale, si cela un cammino di ricerca e di vero struggimento interiore, alla scoperta di un cristianesimo più autentico e profondo.
Poiché è nostra convinzione che il cristianesimo più autentico si trovi proprio nella Chiesa ortodossa, abbiamo creduto opportuno fare alcuni cenni scritti sulle differenze tra questa e il Cattolicesimo romano. Abbiamo cercato, per quanto possibile, di presentare i fatti dei punti di divergenza, e quindi le loro interpretazioni (teologiche, liturgiche, pastorali).
Confidiamo che queste pagine siano utili soprattutto a tre categorie di persone:
– I sinceri ricercatori della verità, che di fronte alla tirannia del relativismo del nostro tempo, non sanno più in cosa credono, o che si chiedono se credere abbia ancora un senso.
– I nostri amici cattolici romani, spesso convinti (e in questo presumiamo sempre la buona fede) che le nostre due espressioni di fede siano “pressoché uguali”. A loro chiediamo, in tutta onestà, di riflettere con attenzione su questi punti. Se certe nostre affermazioni sembreranno loro troppo dure, non chiediamo di meglio che sapere le loro ragioni. È in questo modo che nasce ogni autentico dialogo.
– I nostri fratelli ortodossi, perché (anche qualora non apprezzassero la nostra impostazione) si sentano incoraggiati a scavare alle radici della propria fede. Nella speranza che questo nostro piccolo sforzo possa aiutarli a riscoprire i tesori della loro tradizione, chiediamo loro di pregare per noi peccatori e indegni.
Alcune delle differenze che qui elenchiamo sono di natura teologica e dogmatica, e toccano i principi stessi della fede cristiana, altre sono dovute a usanze locali o a situazioni storiche contingenti; alcune possono essere espressioni di una legittima varietà all’interno dell’aderenza ai punti essenziali della fede; alcune differenze potrebbero forse essere scartate come irrilevanti, ma noi non ci permettiamo di farlo, proprio per uno dei principi basilari dell’Ortodossia: la ferma convinzione che la Fede Ortodossa altro non sia che la pienezza della fede e della tradizione apostolica, conservata con cura nel corso dei secoli, alla quale nulla è stato aggiunto, e nulla è stato tolto. E’ pur sempre possibile che vi siano particolari contingenti, sfumature dovute a particolarità locali o a compromessi marginali con il mondo, il cui abbandono non pregiudica la tradizione ortodossa, ma noi non oseremmo mai determinare da noi stessi quel che è necessario e quello che non lo è. L’Ortodossia è nella sua essenza una comunione di amore, e la determinazione degli aspetti necessari o contingenti deve essere espressione di questa comunione, e non può essere demandata all’arbitrio dei singoli.
Non abbiamo ritenuto opportuno dare alle differenze tra Ortodossia e Cattolicesimo romano un ordine gerarchico (per le ragioni elencate sopra), né disporle in modo sistematico (in quanto alcune differenze di carattere, per esempio, liturgico o terminologico, nascondono dietro di loro ragioni ben diverse di carattere teologico o filosofico). Ci siamo pertanto attenuti, anche per favorire la ricerca di punti specifici, all’ordine alfabetico delle varie voci. Abbiamo posto il termine “Ortodossia” in maiuscolo quando si riferisce alla Chiesa ortodossa, in minuscolo quando è riferito alla conformità di una dottrina all’insegnamento della Chiesa. Allo stesso modo, “Cattolicesimo” è stato posto in maiuscolo laddove definisce la Chiesa cattolica romana.
—– ALCUNE DIFFERENZE —–
Adorazione eucaristica
Nel culto ortodosso, non vi sono funzioni di adorazione pubblica del Santissimo Sacramento, né esiste l’equivalente della esposizione e della benedizione eucaristica cattolica romana. Nel corso della Divina Liturgia, dopo la comunione dei fedeli, è ora invalso l’uso (mai codificato in alcuna rubrica scritta) che il prete benedica il popolo con il Santissimo Sacramento, ma questo gesto (che è di fatto l’equivalente della benedizione eucaristica romana, e la cui introduzione tardiva può far pensare a un “latinismo”) non viene mai compiuto al di fuori del momento della comunione.
Non esistono divieti espliciti a usare i Santi Doni per benedire i fedeli, ma l’Ortodossia non avverte questo genere di bisogno, sia per il proprio tradizionale senso di riservatezza e di avversione per le forme di ostentazione del mistero, sia per un’adesione più intensa alla finalità del Corpo e del Sangue di Cristo come nutrimento (“prendete e mangiate”).
Una ragione complementare della riluttanza degli ortodossi ad accettare queste forme rituali si potrebbe vedere nella separazione delle specie eucaristiche, poiché nella prassi cattolica romana solo il Corpo viene utilizzato per l’adorazione e la benedizione.

Agostino di Ippona e la sua teologia
Pur non avendo obiezioni sulla santità personale di Agostino di Ippona, sulla sincerità della sua conversione e sulla ricchezza umana e profondità del suo impegno per Cristo, l’Ortodossia ritiene le sue conclusioni teologiche per lo meno potenzialmente fuorvianti e pericolose.
Questa è la ragione per cui numerose chiese ortodosse preferiscono usare il termine “Beato Agostino”, escludendolo dal novero dei santi universali, pur ponendolo tra i giusti, anche per l’umiltà di avere affidato alla Chiesa il compito di correggere gli errori riscontrati nei suoi scritti.
La posizione delle singole chiese ortodosse nei confronti di Sant’Agostino non è univoca (curiosamente, furono proprio i grandi difensori della fede ortodossa, come San Fozio e San Marco di Efeso, a tenerlo in maggiore stima e venerazione), ma certamente l’Ortodossia non lo pone tra i maggiori Padri della Chiesa, men che meno al primo posto, come la Chiesa cattolica romana ha sempre tendenzialmente fatto.
Questo non è il luogo per un’analisi delle possibili deviazioni della teologia agostiniana, ma possiamo brevemente elencare i punti che l’Ortodossia ha ritenuto più pericolosi:
1) una diminuzione dell’enfasi sull’aspetto personale della Santissima Trinità, che riduce le persone a semplici “relazioni” dell’unica essenza divina;
2) l’adozione di una concezione pessimistica sul peccato originale;
3) una tensione esagerata nella dialettica tra natura e grazia.
Il primo punto è stato tra le cause della nascita di concezioni impersonali della divinità (deismo); gli altri due sono alla base della lunga querelle tra Cattolicesimo romano e mondo protestante.

Apparizioni mariane
Le apparizioni mariane nel mondo ortodosso (ricordiamo la visione nella Chiesa delle Blacherne a Costantinopoli, che generò la festa della Santa Protezione, e gli innumerevoli episodi collegati alle icone mariane) sembrano indicare un’azione di custodia amorevole e silenziosa, del tutto conforme all’immagine di Maria offertaci nei Vangeli. Questo potrebbe spiegare la diffidenza con cui la coscienza ecclesiale ortodossa valuta le apparizioni mariane che la Chiesa cattolica romana ha autenticato nel corso degli ultimi due secoli.
La quantità di messaggi e “segreti”, rivelati a veggenti per lo più in età tenera e impressionabile, è di per sé sospetta per la sensibilità ortodossa, così come alcuni contenuti teologici. Un esempio tra questi ultimi è il tema delle preghiere e sofferenze “riparatrici,” di cui spesso si parla in tali visioni. Una simile prospettiva, nell’ottica ortodossa, denigra l’idea dell’offerta del nostro Signore per noi con il suggerimento che la nostra sofferenza supplisca in qualche modo per gli altri ciò che manca nella sua offerta di Se stesso. Qui siamo molto vicini alla delusione blasfema di pensare che noi possiamo salvare gli altri con le nostre preghiere e sofferenze, mettendoci in tal modo al posto di Cristo. San Pietro di Damasco esprime la comprensione ortodossa quando dice: “noi non osiamo chiedere l’intercessione a nome di tutti, ma solo per i nostri peccati.”

Assunzione di Maria
Il 1 Novembre 1950, con la Costituzione Apostolica Munificentissimus Deus, Papa Pio XII proclamava il dogma dell’Assunzione corporea al cielo della Madre di Dio. Anche se la Chiesa ortodossa festeggia fin dal IV secolo la festa della Dormizione della Madre di Dio (e l’assenza di reliquie corporali di Maria fa pensare che tale festa fosse giustificata anche in data precedente), con abbondanza di apocrifi neotestamentari, di letteratura patristica e di testi liturgici a riguardo, tuttavia ci sono delle ragioni per una riserva ortodossa riguardo alla formulazione del dogma.
In primo luogo, la festa della Dormizione mette in esplicito collegamento l’assunzione corporale con la morte della Madre di Dio (secondo le narrazioni apocrife, fu proprio la scomparsa del corpo di Maria dal sepolcro dopo la sua sepoltura a generare la venerazione di questo evento): il dogma cattolico romano non definisce la morte di Maria, e l’opera preparatoria del dogma, La mort et l’assomption de la Vierge Marie, di P. Martin Jugie, mette addirittura in dubbio tale morte.
Inoltre, per la teologia ortodossa, l’Assunzione di Maria al cielo fu il frutto della sua maternità divina e della risurrezione di Cristo; la formulazione del dogma del 1950, invece, fa derivare l’Assunzione direttamente dall’Immacolata concezione di Maria (q.v.), per la quale si sollevano nuovamente le obiezioni teologiche ortodosse a riguardo.
Infine, si contesta la proclamazione di un dogma a fronte dell’assenza di una specifica eresia che, al tempo della proclamazione, minacciasse la fede della Chiesa: l’Ortodossia non ha mai conosciuto dogmi proclamati al puro scopo di “chiarire” aspetti dottrinali.

Bacio rituale
L’espressione corporea del bacio, oggi limitata nel rito latino a rari gesti dei celebranti, è un’esternazione di pietà tipica del culto ortodosso, che indica venerazione, rispetto e senso di comunione. Entrando in chiesa, i fedeli baciano le icone, e durante le funzioni è pratica comune baciare la mano dei celebranti (a significare la mano di Cristo da cui si riceve ogni grazia sacramentale), o altri oggetti, quali i paramenti, la croce e il libro dei Vangeli (ragioni esclusivamente pratiche sconsigliano di baciare il turibolo acceso…); il saluto di pace tra i celebranti avviene tipicamente nella forma del bacio, così come la venerazione delle reliquie.

Banchi e sedie
Uno dei particolari che si notano più facilmente entrando nelle chiese ortodosse è la relativa assenza di posti a sedere. Solo le chiese adattate da precedenti luoghi di culto cattolici e protestanti hanno abbondanza di banchi e sedie; nelle altre si trovano abitualmente dei sedili lungo le pareti, riservati alle persone anziane o inferme. Nella tradizione ortodossa, i fedeli stanno in piedi praticamente per tutta la durata delle funzioni (un’abilità che si raggiunge con la pratica), e sono poche le preghiere o i momenti di culto per le quali è prescritto ai fedeli di sedersi o inginocchiarsi. In realtà, capita spesso di trovare un’avversione tipicamente ortodossa per i sedili posti in mezzo alla navata (soprattutto i banchi con inginocchiatoi), che vengono visti come un impedimento al culto (che rende impossibili, per esempio, le prosternazioni e altre espressioni individuali di pietà), un irrigidimento del ruolo del fedele, e una limitazione alla sua connessione e relazione con l’ambiente e il concetto spaziale di “Cielo sulla terra”.

Battesimo
La Chiesa ortodossa continua ad amministrare, secondo il costume apostolico, il battesimo mediante triplice immersione del corpo del battezzando. Già uno dei più antichi testi di istruzione cristiana, la Didaché, ammette in caso di necessità l’amministrazione del battesimo mediante il triplice rovesciamento di acqua (“infusione”) sul capo. Questo atto di eccezione (che nei primi secoli veniva usato solo nei confronti di malati gravi e di prigionieri nelle celle) divenne la norma nelle chiese cattoliche di rito romano in tempo medioevale. Così venne stravolto non solo il senso dello stesso termine “battesimo” (in greco baptìzein significa immergere), ma anche il suo senso simbolico di immersione nel Nome (realtà) delle Persone della Santa Trinità, e della rinascita, o emersione, alla vita nuova. Quando il segno esteriore non è più corrispondente al significato interiore, gran parte della comprensione dell’atto sacramentale viene perduta.

Battesimo d’emergenza
Nei casi in cui si deve procedere a un battesimo di emergenza (in assenza di un sacerdote) la persona del battezzante, secondo i teologi cattolici romani, può anche essere un non cristiano, purché amministri il battesimo secondo le modalità e l’intenzione della Chiesa. L’Ortodossia, al contrario, ha sempre sostenuto che il battezzante deve essere a sua volta battezzato. Il principio è quello che non si può dare ciò che non si possiede: la posizione cattolica romana, portata alle sue estreme conseguenze, rischia di far dipendere un sacramento dal puro requisito formale della sua corretta applicazione.

Calendario
La maggioranza numerica degli ortodossi nel mondo (Russia, Bielorussia, Ucraina, Georgia, Serbia, il Monte Athos, Gerusalemme e il Monte Sinai, con le numerose dipendenze di questi ultimi tre, oltre a una consistente parte degli ortodossi polacchi, cechi, slovacchi e dei Paesi Baltici, e molte comunità della diaspora) segue ancora il tradizionale calendario giuliano per il computo delle feste, in ritardo di circa due settimane rispetto al calendario civile. Le altre chiese ortodosse autocefale, a partire dal 1924, hanno introdotto il calendario gregoriano (lo stesso in uso nell’Occidente cristiano), per quanto riguarda il ciclo delle festività a data fissa. Con poche eccezioni dovute alla presenza ortodossa in paesi occidentali, tutte le Chiese ortodosse celebrano invece il ciclo della Pasqua, e delle feste mobili a questa connesse, secondo l’antico calendario.
Le ragioni dell’aderenza al vecchio calendario – che hanno procurato in questi ultimi decenni non poche amarezze tra gli stessi ortodossi – sono molteplici:
1) in primo luogo, il calendario giuliano ecclesiastico, e i cicli pasquali dei Padri della Chiesa di Alessandria, costituiscono un prodigio di ritmo e di armonia tra scienza e fede, a cui il calendario gregoriano (frutto di un’epoca di ossessione “scientista” per l’esattezza della data astronomica dell’equinozio di primavera) non riesce neppure ad avvicinarsi.
2) Inoltre, le “imprecisioni” astronomiche che la riforma gregoriana si vanta di avere eliminato sono state meramente attenuate, e i dati del calendario gregoriano, per i difetti dovuti a qualsiasi calendario, vanno anch’essi discostandosi sempre più dai dati reali.
3) Infine, l’adozione del calendario gregoriano causa innumerevoli violazioni alle norme della Chiesa, prima fra tutte quella che, rifacendosi a un decreto del Concilio di Nicea (325) proibisce la celebrazione della Pasqua nello stesso giorno della Pasqua ebraica.
Con l’adozione del calendario gregoriano nel 1582, la Chiesa cattolica romana ruppe per la prima volta l’unità della Pasqua e delle feste cristiane. Oggi è quanto meno singolare vedere la maggioranza degli ortodossi accusati di “arretratezza” o di mancanza di spirito fraterno, per avere voluto mantenere, nella vita della Chiesa, l’integrità del deposito di fede dei Padri.

Canoni
I Santi Canoni, composti come guide o regole della Chiesa dagli apostoli, dai Santi Padri, e da Concili ecumenici e locali, sono applicati nella Chiesa ortodossa dall’autorità del vescovo, che ha l’opzione di interpretarli secondo una posizione severa (acrivìa) oppure misericordiosa (economia) a seconda dei casi (la severità è la norma). L’Ortodossia non vede i canoni come leggi che regolano le relazioni umane o che salvaguardano diritti umani, ma piuttosto come mezzi per forgiare la “nuova creatura” attraverso l’obbedienza. Sono addestramento alla virtù, e fonte di santità, ed è per questo che nella Chiesa ortodossa non possono essere ignorati o scartati, anche se alcuni (generalmente delle semplici specificazioni di canoni antichi) possono essere aggiunti di tanto in tanto. Roma può permettersi, a ogni cambiamento di circostanze esterne, di mutare i propri canoni per tenerli al passo con i tempi, e di ignorare quelli antichi. L’Ortodossia, ritenendo i canoni ispirati dallo Spirito Santo, e consapevole dell’immutabilità dei veri problemi e necessità umane, non può condividere questa linea.

Canonizzazioni
La Chiesa ortodossa non ha più inserito nei suoi calendari i santi canonizzati dalla Chiesa cattolica romana dopo il grande scisma del 1054, mentre mantiene i santi anteriori a questa data. Anche con l’accettazione in seno alla Chiesa ortodossa di cristiani occidentali, non è stata loro permessa la venerazione pubblica di santi “latini” posteriori allo scisma. La Chiesa cattolica romana, al contrario, ha permesso la venerazione di santi “greci” canonizzati dagli ortodossi dopo lo scisma, tipicamente nei casi delle Chiese cattoliche orientali.
Dietro la severità della procedura ortodossa c’è un’istanza di profonda serietà: il rifiuto di “rubare” santi a chiese che non sono in comunione con la Chiesa ortodossa (anche figure che maggiormente potrebbero essere vicine alla spiritualità ortodossa) è motivato dal desiderio ortodosso di cercare in primo luogo una piena comunione nella fede, e solo a quel momento sancire una celebrazione comune.

“Cattolica”: il senso del termine
La differenza di nome (“Chiesa cattolica” e “Chiesa ortodossa”) non deve far pensare a marchi depositati. Gli stessi ortodossi, spesso, si definiscono “Chiesa Cattolica Ortodossa” o “Chiesa Cattolica Ortodossa dell’Est”. La coscienza ecclesiale ortodossa rifiuta un’identificazione tra “cattolicesimo” e “sede romana” come se questi termini fossero indispensabilmente legati l’uno all’altro.
Nel definirsi “cattolici”, gli ortodossi usano il termine nella radicale convinzione di essere la Chiesa “una, santa, cattolica e apostolica”, in cui professano la fede quando recitano il Credo.
“Cattolica”, com’è noto, viene di solito tradotto in italiano con la parola universale, ma esistono sfumature di significato che rendono il termine più profondo e ricco di quanto sembri a prima vista. Il greco katholikà (che letteralmente significa “secondo il tutto”) può significare anche una “universalità interiore” (nel senso di globalità che contiene tutta la verità nella sua pienezza) oppure un principio di conciliarità o sinfonicità di Chiese locali (espresso con forza dalla traduzione slava sobòrnaia). Una universalità vista nel puro senso di disseminazione geografica, di notorietà mondiale, o di superiorità numerica (argomenti spesso usati dalla Chiesa romana per avallare la propria posizione) ha poco senso per l’Ortodossia, se non è accompagnata da una “cattolicità” di fede inalterata.
Il fatto stesso che il mondo latino, pur sottolineando i significati “quantitativi” di universalità, abbia preferito usare per la Chiesa il termine greco catholica piuttosto che quello latino universalis, fa pensare che il senso di “cattolicità” mantenuto nella Chiesa ortodossa sia più prossimo alla coscienza ecclesiale originaria.
Il nome “cattolica”, per di più, non ha solo una dimensione filologica, ma anche una molto pratica e tangibile nel diritto internazionale. Nella lista delle religioni mondiali presso le Nazioni Unite, l’entità nota come “Chiesa cattolica” è registrata sotto il nome di Chiesa cattolica romana, mentre quella nota come “Chiesa ortodossa” è registrata sotto il nome di Chiesa cattolica ortodossa.

Carattere sacramentale
La Chiesa cattolica romana, sotto l’influsso della teologia scolastica, ha adottato una dottrina particolare, non condivisa dall’Ortodossia, per spiegare perché i sacramenti del Battesimo, della Cresima e dell’Ordine Santo non vengono ripetuti. Secondo tale dottrina, questi tre sacramenti, oltre a conferire la grazia divina, imprimono sull’anima un segno indelebile, che non cessa di esistere anche se la grazia divina del sacramento si ritira a causa del peccato. Questa dottrina è vincolante per i cattolici romani (Concilio di Trento, sess. VII, Canone 9).
La teologia ortodossa ribadisce che la teoria del carattere sacramentale, priva di un solido appoggio scritturale e patristico, crea un’arbitraria qualificazione all’interno dei sacramenti, ed è incapace di spiegare la natura del carattere sacramentale, e la sua eventuale esistenza al di fuori della grazia conferita dal sacramento. La dottrina sostenuta nella Chiesa ortodossa è che i tre sacramenti in questione (come pure il sacramento della Penitenza, per quanto riguarda i peccati già confessati e assolti) non si reiterano, perché non esiste più la causa per la quale quei sacramenti furono conferiti. Vale la pena notare che il secondo conferimento della Cresima agli apostati che rientrano nella Chiesa (testimoniato già in tempi antichi), non è considerato reiterazione del primo sacramento, ma segno di riconciliazione.

Cesaropapismo
Tra le più frequenti accuse rivolte dai cattolici romani all’Ortodossia (e a tutto l’Oriente cristiano in generale) vi è quella di una forte ingerenza degli stati secolari (siano essi imperi cristiani, stati laici o regimi atei) negli affari interni della Chiesa (cesaropapismo). La posizione sopranazionale di Roma garantirebbe, secondo questa visione, una libertà dalle intrusioni statali nelle questioni religiose.
Occorre chiarire subito che quest’accusa non ha niente a che vedere con un eventuale pericolo per la purezza della fede: se così fosse, allora la controversia iconoclasta (ovvero la forzatura di un elemento estraneo alla fede apostolica da parte dello stesso potere imperiale) non avrebbe dovuto essere affatto una controversia in Oriente, mentre di fatto lo fu, e grande. La questione riguarda piuttosto diversi livelli di libertà di espressione e di culto, messi in pericolo da ingerenze statali.
Questa potrebbe risultare una divergenza più profonda e difficile da sormontare di quanto sembri, poiché alla base stanno due idee totalmente antitetiche dell’atteggiamento che i cristiani dovrebbero avere di fronte al mondo. Il contrasto potrebbe essere espresso, in modo forse semplicistico ma chiaro, nel dilemma: “è meglio asservirsi allo Stato o soppiantare lo Stato?” (Le due alternative rappresenterebbero i rispettivi punti deboli dell’Oriente e di Roma).
Ovviamente, è impossibile rispondere in modo generalizzato: gli ortodossi ritengono comunque che la costituzione di un centro ecclesiastico che si duplica come potere politico (la soluzione romana dello Stato della Chiesa, della rappresentanza diplomatica sovranazionale, e così via) sia assai più pericolosa che il dominio temporale di uno Stato transitorio, per quanto ostile.

Chiesa docente e discente
La Chiesa romana ha sempre avuto grande cura di definire le funzioni dei propri fedeli nei vari ruoli della vita ecclesiastica. In particolare, una netta distinzione ha caratterizzato l’orizzonte dottrinale del Cattolicesimo romano: quella tra Chiesa “docente” (coloro che sono preposti al compito dell’insegnamento e della trasmissione del deposito della fede, storicamente il Papa e i vescovi, o prelati equiparati ai vescovi, in comunione con il Papa) e Chiesa “discente” (coloro che apprendono la dottrina, ovvero tutti gli altri cristiani, inclusi i preti, che pure hanno il mandato della predicazione). Questa suddivisione è stata causa di profonde fratture psicologiche tra i fedeli, incoraggiando un tipo di gerarchizzazione collegato al ruolo didattico.
L’Ortodossia, d’altro canto, ha sempre rifiutato la distinzione tra Chiesa docente e discente: il compito di apprendere, insegnare e vigilare sulla fede appartiene a tutti i fedeli, e il rispetto per singole figure di monaci e chierici di particolare cultura e profondità non va in alcun modo confuso con il rispetto per i membri del clero in quanto celebranti dei Misteri di Cristo, o per i membri dell’ordine monastico in quanto cristiani impegnati in una vita radicale dei principi evangelici.

Chiese sorelle
Una vasta polemica è stata sollevata in anni recenti dall’uso sconsiderato del termine “Chiese sorelle”, per indicare le realtà ecclesiali cattolica romana e ortodossa alla ricerca di unità.
Per la mentalità ortodossa, la fratellanza significa anche comunione nella stessa fede, e non solo condivisione di un cammino di dialogo e di ricerca di unità. Le uniche chiese che un ortodosso può in piena coscienza chiamare “sorelle” sono le diverse Chiese autocefale dell’ecumene ortodosso, e anche queste, comunque, nella coscienza che si tratta di realtà locali dell’unica Chiesa. Chiamare “sorella” una comunione ecclesiale separata dalla Chiesa Ortodossa equivale a un cedimento rispetto alla confessione della Chiesa Una, e a un tradimento del Simbolo di fede.
Allo stesso modo, gli ortodossi avvertono improprietà nell’uso del termine “Chiesa indivisa” per indicare l’ecumene cristiano del primo millennio (il termine dovrebbe presupporre l’esistenza di una “Chiesa divisa” nei secoli successivi, affermazione che è in contraddizione con la fede proclamata nel Credo).
Una terminologia ben più appropriata sarebbe quella relativa ai “cristiani divisi”, o alla fratellanza tra i medesimi, nella ricerca dell’unità di fede.

Clero sposato
Fin dai tempi apostolici, la Chiesa ha chiamato al servizio ministeriale, oltre ai celibi, anche gli uomini sposati. Quando la disciplina del matrimonio fu fissata nei Concili di Ancira (314), Nicea (325), Gangra (c. 350) e nel Concilio Trullano del 692, fu rispettata questa tradizione, con la riserva di scegliere i vescovi tra gli uomini che avessero pronunciato i voti monastici (in questi casi, se l’eletto all’episcopato era sposato, il matrimonio veniva sospeso, ed entrambi i coniugi entravano nella vita monastica). Non era invece ammesso un matrimonio dopo l’ordinazione, e se un membro del clero rimasto vedovo desiderava risposarsi, doveva accettare la riduzione allo stato laicale.
La Chiesa ortodossa segue tuttora questa tradizione, senza alcuna modifica. Riteniamo opportuno correggere il luogo comune che parla di “preti che si sposano” nelle Chiese ortodosse: esistono preti sposati, ma non preti che si sposano (a meno di venire ridotti allo stato laicale).
Inoltre, è bene ricordare che nella Chiesa ortodossa i preti e diaconi sposati sono tenuti a offrire nella loro vita matrimoniale una immagine rigorosa e ideale del sacramento nuziale. Pertanto, non può essere ordinato agli Ordini maggiori un uomo che abbia sposato una divorziata o una vedova, o che abbia contratto un secondo matrimonio.
In Occidente, il Concilio di Elvira, in Spagna (306), proibì a preti e diaconi di vivere con le proprie mogli dopo l’ordinazione. Nonostante questa innovazione fosse stata condannata dal Concilio Trullano, ebbe inizio una serie di iniziative, mai del tutto riuscite, per imporre il celibato sacerdotale (l’imposizione lasciava purtroppo mano libera al concubinato), finché i primi due Concili Lateranensi (1123 e 1139) lo imposero con validità universale. Papa Alessandro III, nel 1180, impose il celibato anche ai diaconi, ma in anni recenti ai diaconi permanenti della Chiesa cattolica romana è stato restituito il diritto di essere ordinati nello stato coniugale.
Per le Chiese orientali unite a Roma, la tendenza generale è quella di rispettare le tradizioni di provenienza, ma talvolta queste sono state drasticamente ignorate (un esempio è la forzatura del celibato sui sacerdoti cattolici orientali al di fuori dei loro territori storici d’origine: una prassi che causò il ritorno di molti di loro all’Ortodossia, tra cui intere diocesi in America).
La disciplina cattolico-romana sul celibato sacerdotale, per quanto venga giustificata con ottime ragioni, soprattutto pastorali, presenta troppi “strappi” e cambiamenti perché gli ortodossi la possano ritenere conforme alla tradizione della Chiesa.

Comunione chiusa
Anche se un cristiano non ortodosso interamente tagliato fuori dai ministri della propria Chiesa può, in casi particolari (persecuzioni, pericolo di morte, isolamento geografico…) essere ammesso con permesso speciale a ricevere la Santa Comunione nella Chiesa ortodossa, non si applica in alcun modo il contrario: agli ortodossi è proibito essere ammessi alla comunione eucaristica per mano di sacerdoti non ortodossi. Nella sua apparente durezza (per la quale gli ortodossi vengono facilmente criticati), questa norma è profondamente in linea con la fede della Chiesa. Comunicare al Corpo e al Sangue di Cristo significa anche confessare che nella Chiesa in cui ci si comunica esiste la pienezza della fede apostolica. Significa inoltre, di fatto, diventare membri di detta Chiesa a pieno titolo, abbracciandone l’etica, i regolamenti e la disciplina. Alla luce di queste considerazioni si può capire non solo l’assoluto divieto di comunicarsi presso ministri non ortodossi, ma anche la reticenza dei sacerdoti ortodossi a comunicare cristiani di altre comunioni (è un gesto di rispetto della loro libertà religiosa, un rifiuto di cooptarli in modo poco pulito nel numero dei propri fedeli).
L’atteggiamento della Chiesa cattolica romana, che permette con maggiore larghezza ai propri fedeli di ricevere certi sacramenti in altre Chiese, nelle quali essa non riconosce esplicitamente la pienezza della fede cristiana (canone 844 del Codice di Diritto Canonico del 1983), è visto dagli ortodossi come un cedimento a un relativismo ecclesiologico non diverso da quello della maggior parte delle Chiese protestanti.

Comunione sotto le due specie
Mentre la tradizione liturgica latina ha sottratto il calice ai laici dall’Alto Medioevo fino al periodo seguente al Vaticano II, la Chiesa ortodossa ha sempre mantenuto, in conformità alle istruzioni di Cristo (Mt 26,27: “Bevetene tutti”), la comunione sotto le due specie. Il Corpo e il Sangue di Cristo, mescolati nel calice, vengono solitamente amministrati ai fedeli mediante un cucchiaio. Anche le particole che sono conservate per la comunione dei malati vengono intinte nel vino consacrato prima di essere custodite nei tabernacoli.
Solo nella Liturgia di San Giacomo, il più antico rito eucaristico tuttora celebrato dagli ortodossi, gli elementi eucaristici vengono distribuiti separatamente, ma in ogni caso i fedeli partecipano sia dell’uno che dell’altro.
La quantità degli elementi non è importante (ai bambini non ancora svezzati può essere amministrato, in un cucchiaino, un frammento estremamente piccolo del pane eucaristico), ma rimane importante la partecipazione a entrambi.
Un paragone simbolico può servire a riportare l’attenzione all’importanza di questo dettame della Chiesa ortodossa: un corpo senza sangue è, per definizione, un corpo privo di vita.

Concili di riunione
Le aspirazioni ecumeniche cattolico-romane ripropongono regolarmente le soluzioni di unione con l’Oriente che furono tentate con i Concili di Lione (1274) e di Ferrara-Firenze (1438-39). Le formule di questi ultimi (ritenuti Concili Ecumenici dal Cattolicesimo romano) furono vigorosamente respinte dall’ecumene ortodosso, e la loro rivisitazione in chiave contemporanea sembra portare a scontati risultati negativi.
Il problema con le formule di unione di Lione e Firenze è che queste costituiscono una non-soluzione, dal punto di vista dell’unità di fede. Le loro conclusioni – che entrambe le parti possono mantenere le rispettive differenze dottrinali e rituali in una reciproca legittimazione – sono per l’Ortodossia una rinuncia alla professione di una fede unica.
Una proposta più interessante per gli ortodossi sembra quella di lavorare per un’unione sulla base del Concilio di Costantinopoli dell’879-880, tenuto sotto il Papa Giovanni VIII e il Patriarca Fozio. Questo concilio, che rovesciò le decisioni del concilio “ignaziano” o “anti-foziano” dell’869 (ritenuto oggi dai cattolici romani l’Ottavo Concilio Ecumenico), resta l’ultimo concilio in cui si testimoniò la comune fede ortodossa dell’Occidente e dell’Oriente. Esso riconobbe Roma e Costantinopoli come supreme nella propria sfera, senza alcuna “giurisdizione romana” su Costantinopoli. Ripudiò unanimemente il filioque (q.v.), e portò alla completa reintegrazione di San Fozio nel suo ruolo patriarcale.
Questo concilio presenta dei problemi agli occhi degli apologeti romani. L’Occidente considerò questo concilio, se non come ecumenico, per lo meno come un sinodo autorevole approvato da Roma. L’Oriente lo vide come ecumenico, poiché vi concorsero tutti i criteri presenti nei concili precedenti: convocazione imperiale e presenza di tutti e cinque i patriarcati maggiori. Gli atti di questo concilio seguono sempre gli atti degli altri Sette nelle collezioni ortodosse di diritto canonico. Per due secoli, il concilio dell’869-870 espresse la fede comune di Roma e dell’Oriente.
Non fu che con la Riforma gregoriana che le cose cambiarono di nuovo in Occidente. Il concilio “ignaziano” fu riconosciuto come il vero Ottavo Concilio Ecumenico. Nessuna giustificazione fu mai addotta da Roma per spiegare questa soluzione di continuità. Ovviamente, anche le tavole d’argento con il Credo comune (senza filioque), appese a Roma in San Pietro, caddero dalla loro sede, e con loro cadde simbolicamente la fede comune dell’Oriente e dell’Occidente cristiano.
Purtroppo, l’esito finale del concilio dell’869-870, con il mutamento di riconoscimento dopo due secoli di accettazione, non rassicura troppo l’Oriente sulle pretese romane di stabilità dottrinale.

Concilio ecumenico: quali requisiti?
Perché si possa parlare di Concilio ecumenico, la Chiesa ortodossa richiede la presenza di una minaccia attuale alla fede della Chiesa, che viene difesa attraverso una definizione conciliare. Numerosi concili che la Chiesa cattolica romana considera ecumenici (Costantinopoli IV, Laterano II, Lione I, Costanza, e lo stesso Vaticano II) presentano difficoltà in questo campo, per la loro enfasi politico-amministrativa o pastorale. La coscienza ortodossa tenderebbe piuttosto a iscrivere questi concili nella linea della tendenza latina allo sviluppo dogmatico (q.v.). Una chiara valutazione del valore dei concili ritenuti ecumenici da Roma (due terzi non sono condivisi dall’Ortodossia) è indispensabile sulla via della ricerca di un’unità di fede.

Confessione
Il sacramento della penitenza, le cui modalità non sono state codificate in modo immutabile (dalle forme antiche di confessione pubblica si è passati gradualmente alla confessione auricolare privata), ha seguito un percorso diverso nel mondo ortodosso e cattolico romano.
Nella prassi ortodossa, la presenza invisibile di Cristo (vero fulcro di un legame triangolare di cui il prete e il penitente non sono il vertice principale) è manifestata dalla presenza di un’icona di Cristo; ciò viene ulteriormente sottolineato dalla posizione del prete e del penitente, entrambi seduti (usanza greca) o entrambi in piedi (usanza russa) di fronte all’icona del Salvatore.
Il mondo cattolico romano ha sviluppato il confessionale a grata, nella ricerca di una via di discrezione e di raccoglimento nella confessione; pur riuscendo a raggiungere tali scopi, ha tuttavia reso difficile vedere la presenza simbolica di Cristo, e ha fatto uscire di proporzione il ruolo del prete rispetto a quello del penitente.
Parallelamente a queste innovazioni, principi di uno spiccato giuridismo (q.v.) hanno teso a trasformare il confessore in un “direttore delle coscienze”, piuttosto che un testimone di fronte a Cristo della confessione di un altro peccatore.

Decanonizzazioni
La Chiesa ortodossa, non avendo una procedura “centralizzata” e inappellabile per la canonizzazione dei santi, ammette in linea di principio che il giudizio di canonizzazione non sia infallibile. Può capitare pertanto che la Chiesa tolga dall’albo dei santi certi nomi, e che eventualmente ve li rimetta, senza che questo crei scandalo tra i fedeli. (È una prassi di fatto accaduta all’imperatore Costantino, sospettato di arianesimo, e alla principessa russa Anna di Kashin, sospettata di aver appartenuto allo scisma dei Vecchi Credenti, entrambi tolti dall’albo dei santi e in seguito ricanonizzati).
La Chiesa cattolica romana, al contrario, sostiene che la canonizzazione sia un atto irreformabile, in quanto giudizio solenne che impegna la Chiesa. Gli ortodossi non sanno se essere più sconcertati per questo rigorismo inappellabile, o per certe flagranti contraddizioni in cui lo stesso Cattolicesimo romano è caduto, ammettendo di fatto numerose decanonizzazioni.
Tra i santi decanonizzati dalla Chiesa romana per ragioni di ortodossia teologica, citiamo due casi: San Clemente Alessandrino, festeggiato il 4 Dicembre, fu radiato nel 1586 dal Martirologio Romano da Papa Sisto V, su istanza del Cardinale Baronio, per sospetti di origenismo; Papa Urbano V (1362-1370) fa ancora riferimento in una delle sue bolle a San Giovanni Cassiano, in seguito radiato dall’albo dei santi sotto accusa di semipelagianesimo.
Una decanonizzazione che è parsa particolarmente offensiva agli ortodossi (per i quali equivale a uno sfregio alla tradizione), è la recente esclusione dall’albo cattolico romano dei santi di figure sulla cui storicità sono stati espressi dubbi (a cominciare da San Giorgio e Santa Barbara, due delle figure più venerate del cristianesimo).

Devozione al Sacro Cuore
In profonda armonia con lo spirito del Concilio di Calcedonia (culto unico di Cristo nella sua divinità e umanità), l’Ortodossia ha sempre mantenuto un senso globale nell’adorazione di Cristo, e anche oggi gli ortodossi si sentono estranei alle forme di culto di qualche parte distinta del suo essere, o di una delle sue nature separata dall’altra.
L’esempio più clamoroso di tali forme di culto è la devozione cattolico-romana al Sacro Cuore di Gesù (una pratica sviluppatasi alla fine del XVII secolo dalle rivelazioni della mistica francese Margherita Maria Alacoque).
Anche se per “cuore” intendiamo l’ardente amore del Salvatore per gli uomini, pure non esiste, nell’Antico e nel Nuovo Testamento e nella tradizione dei Padri, l’usanza di adorare separatamente l’amore di Dio (o la sua sapienza, provvidenza, santità, o altri aspetti separati), tanto meno usandone come simbolo una parte del corpo.
L’Ortodossia vede qualcosa di innaturale nella separazione del cuore dalla natura corporea generale del Signore a scopo di preghiera e contrizione di fronte a Lui. Anche nell’amore più spontaneo e immediato, come quello materno, non ci si riferisce mai al cuore della persona amata, ma sempre alla persona stessa, in modo globale.
Gli stessi commenti possono valere riguardo a forme simili di devozione (per esempio, quella al Cuore Immacolato di Maria), profondamente sentite nel mondo cattolico romano.

Devozioni medioevali
Le usanze e le pratiche devozionali del mondo ortodosso attuale hanno mantenuto una notevole continuità con quelle del primo millennio. Non così si può dire del mondo della pietà cattolica romana, che subì una vera e propria rivoluzione intorno al dodicesimo secolo. Con lo spostamento dell’attenzione dalla nostra redenzione per mezzo della Risurrezione del Signore a un’enfasi sulla Passione del Signore, fu introdotto nel culto e nella devozione privata un elemento simbolico di amore carnale. Si giunse a considerare il Signore come compagno, amico o perfino marito/amante, come si vede nelle immagini matrimoniali introdotte nella professione monastica (q.v.) delle donne in Occidente. Tra le manifestazioni di questo nuovo approccio a Cristo vi sono la festa del Santo Nome, devozioni speciali alle Cinque Piaghe di Cristo, le stazioni della Via Crucis, le meditazioni assegnate alle decadi del rosario, il presepio di Natale e la devozione al “Bambino Gesù” in generale, nonché la devozione al Sacro Cuore di Gesù (q.v.). L’Ortodossia ha mantenuto un approccio devozionale al Signore molto più sobrio e obiettivo, cercando di evitare la sensualità, la sentimentalità e l’emotività.

Diaconato permanente
Rimanendo fedele alla tripartizione del ministero sacerdotale (diaconi, presbiteri e vescovi), la Chiesa ortodossa ha sempre giudicato opportuno che i diaconi possano restare nel loro stato, se tale è il loro desiderio, anche per tutta la vita; ciò si giustifica con la ricchezza e la complessità del ruolo del diacono nelle funzioni sacre ortodosse (nella Divina Liturgia, per esempio, le parti riservate ai diaconi sono preponderanti, e costituiscono un legame ideale tra fedeli, coro e sacerdote).
Nel mondo cattolico romano, con l’assottigliarsi delle funzioni del diacono nei riti, il diaconato è gradualmente divenuto, fino ai tempi del Concilio Vaticano Secondo, un periodo di “apprendistato” al sacerdozio, solitamente della durata di un anno.
La recente riaffermazione di un diaconato permanente nella Chiesa cattolica romana manifesta un lodevole desiderio di ridare al diaconato un ruolo di dignità e di importanza nella Chiesa. Gli Ortodossi vedono anche con favore la reintroduzione, nel diaconato permanente romano, della prassi del clero sposato. Visto che tali regole permettono l’ordinazione di uomini sposati al diaconato, ma non al sacerdozio, resta tuttavia l’interrogativo su quanti degli attuali “diaconi permanenti” rimarrebbero tali se si aprissero loro le porte dell’ordinazione presbiterale.

Diaconesse
La diaconessa, figura presente nelle comunità cristiane del Nuovo Testamento, è un tipo di ministero femminile che ebbe una certa importanza nei primi secoli della cristianità, finché le sue funzioni (che non corrispondevano a quelle liturgiche e ministeriali del diacono) furono gradualmente assorbite dagli ordini monastici femminili. Per la verità, le tracce storiche di presenza di diaconesse sono enormemente più frequenti nelle chiese dell’Oriente cristiano che in quelle occidentali.
Nella Chiesa cattolica romana, a grandi linee, si può escludere la presenza di diaconesse per tutto il secondo millennio, e anche se si è parlato di una possibile rivalutazione di questo ministero, non si è ancora deciso nulla a proposito.
Nelle Chiese ortodosse, invece, si sono avuti ancora fino ai nostri giorni casi di ammissioni di diaconesse, benché troppo rari per poter parlare di un costume fisso. Ricordiamo i casi di Madre Maria Tuchkova in Russia nel diciannovesimo secolo, e le monache greche ordinate da San Nettario di Egina alcuni decenni dopo: tuttora si ha sentore di ordinazioni sporadiche di diaconesse, ma per lo più monache, e il loro ministero è confinato nei propri monasteri.
Una ulteriore rivalutazione ed estensione del ruolo della diaconessa, nell’Ortodossia, non avrebbe in linea di massima alcun ostacolo canonico, e sarebbe soggetta unicamente all’approvazione dei fedeli.

Digiuno e astinenza
Già nell’anno 867 San Fozio, patriarca di Costantinopoli, lamentava l’introduzione di deviazioni della prassi del digiuno operate dalla Chiesa romana, e imposte dai missionari latini: l’usanza di digiunare anche il sabato, e la concessione di cibarsi di latticini nella prima settimana di quaresima. (Provvedimenti, quindi, talvolta più rigorosi e talvolta più permissivi, ma in ogni caso deviazioni dalla prassi della Chiesa antica). Ma le deviazioni sarebbero aumentate ancora di più dopo lo scisma.
Gli odierni residui delle antiche astinenze alimentari tuttora rimasti nella chiesa cattolica romana si limitano al divieto della carne in alcuni giorni particolari della quaresima. Nei periodi di digiuno degli ortodossi (che corrispondono a più della metà dei giorni dell’anno), è rimasto invece l’antico divieto di cibarsi, oltre che della carne, anche di pesce, uova, latte e latticini, vino e olio.
Per gli ortodossi, a differenza dei cattolici romani, rimane in vigore il divieto di consumare sangue, in conformità con il dettame del Concilio apostolico di Gerusalemme, citato in At 15,20.
In alcuni casi (che variano a seconda di usi nazionali e locali) l’astinenza viene lievemente mitigata in ricorrenze speciali, ma si tratta comunque, anche da un punto di vista meramente quantitativo, di una attitudine verso il digiuno molto più rigorosa di quella cattolico-romana.
Inoltre, nell’Ortodossia digiunano tutti, non solo i monaci, con un fervore e una disciplina che provocano spesso stupore nei cattolici romani, abituati a vedere lo stesso rigore solo nei più severi ordini religiosi.
In generale, si può dire che questo enorme divario di prassi ascetica rifletta due tendenze del tutto differenti di considerare il mondo e il cammino di santificazione: il Cattolicesimo romano si è gradualmente diretto verso un progressivo adattamento a questo mondo e alla sua mentalità (ritenendolo, indubbiamente, una misura di generosità della Chiesa nei confronti dei propri figli); l’Ortodossia, invece, pur consapevole della difficoltà di mantenere severe prescrizioni ascetiche nel presente oceano di mondanità, non si sente autorizzata a sminuire i suoi modelli etici. Questi sono infatti modelli di santità, ai quali i fedeli ortodossi sanno di essere sempre e immancabilmente chiamati.

Digiuno eucaristico
Come per i periodi di digiuno quaresimale, si è visto nella Chiesa cattolica romana un progressivo indebolimento del senso del digiuno prima di ricevere la santa Comunione. Con le recenti riforme il digiuno eucaristico si è ridotto a una singola ora di astinenza dai cibi e bevande, eccettuata l’acqua.
Nella Chiesa ortodossa, dove l’antica pratica è invece rimasta immutata, per chi desidera comunicarsi nulla può essere mangiato o bevuto dal momento del risveglio al mattino. Nel caso di Liturgie vespertine (permesse dalle rubriche ortodosse solo quando la Liturgia si fonde con il Vespro, in 4 occasioni di vigilie di grandi feste, e nelle Liturgie dei Presantificati in alcuni giorni della Grande Quaresima), il periodo di digiuno totale prima di comunicarsi è lo stesso, ma in certi casi viene tollerato un digiuno di sei ore.
Non sono infrequenti, nel mondo ortodosso, casi di fedeli particolarmente devoti, che prima di comunicarsi osservano anche uno o più giorni di digiuno totale.

Diritto canonico
Comprendendo nel suo seno popoli con tradizioni giuridiche molto diversificate, la Chiesa ortodossa non ha, a differenza di quella cattolica romana, un testo di diritto canonico unificato. Eppure, come per i libri liturgici (q.v.), esiste una ricca serie di collezioni di canoni, tra le quali emerge il Pedalion (timone) di San Nicodemo l’Agiorita, pubblicato nel 1800.
Si considerano normative per l’Ortodossia le collezioni canoniche dell’epoca dei sette Concili Ecumenici del primo millennio, nonché l’ampia raccolta del Concilio Quinisesto o Trullano, che è la più antica codificazione estesa del diritto canonico ortodosso.
L’ignoranza del diritto canonico ortodosso ha fatto spesso pensare, in Occidente, a un’Ortodossia “priva di regole”. In realtà, le regole sono abbondanti e spesso di grande strettezza e rigore, anche se modellate su situazioni e necessità locali.
La recente promulgazione (1990) di un testo unico di diritto canonico per le chiese cattoliche di rito orientale è vista quanto meno con perplessità dagli ortodossi, che si chiedono come un’unica normativa uniforme possa adattarsi alle diverse usanze e situazioni storiche dei popoli cristiani dell’Oriente (una situazione aggravata dal fatto che il mondo cattolico orientale comprende Chiese di diversa origine, come quelle uscite dal mondo non calcedoniano).

Divorzio e secondo matrimonio
Si dice talvolta, in ambienti cattolici romani, che la Chiesa ortodossa tollera il divorzio: l’affermazione è alquanto gratuita, soprattutto in un’epoca in cui, parlando di divorzio, si pensa subito all’istituzione giuridica moderna. In realtà l’Ortodossia non è affatto “divorzista”: essa fa proprie le parole di Gesù sul ripudio (in quanto atto unilaterale e umano di scioglimento di un legame divino). Tuttavia, come misura di economia (dispensazione) e filantropia (amorevolezza), basandosi sul fatto che Cristo stesso permise un’eccezione (Mt. 19,9) al suo rifiuto del ripudio, la Chiesa ortodossa è disposta a tollerare le seconde nozze di persone il cui vincolo matrimoniale sia stato sciolto dalla Chiesa (non dallo Stato!), in base al potere dato alla Chiesa di sciogliere e legare, e concedendo una seconda opportunità in alcuni casi particolari (tipicamente, i casi di adulterio continuato, ma per estensione anche certi casi nei quali il vincolo matrimoniale sia divenuto una finzione). È prevista (per quanto scoraggiata) anche la possibilità di un terzo matrimonio, mentre è in ogni caso proibito un quarto (gli antichi canoni che proibivano in ogni caso un quarto matrimonio non sono più rispettati nel cattolicesimo romano). Inoltre, la possibilità di accedere alle seconde nozze in casi di scioglimento del matrimonio viene concessa solo al coniuge innocente.
Le seconde (e terze) nozze, a differenza del primo matrimonio, sono celebrate con un rito speciale, di carattere penitenziale (il cui principio è il riconoscimento di una situazione di fallimento), che contiene una preghiera di assoluzione (la prassi cattolica romana non prevede una identificazione liturgica delle seconde nozze). Poiché nel rito delle seconde nozze mancava in antico il momento dell’incoronazione degli sposi (che la teologia ortodossa ritiene il momento essenziale del matrimonio), esiste una giustificazione teologica nel dire che le seconde nozze non sono un vero sacramento, ma tutt’al più, per usare la terminologia latina, un sacramentale, che consente ai nuovi sposi di considerare la propria unione come pienamente accettata dalla comunità ecclesiale. Il rito delle seconde nozze si applica anche nel caso di sposi rimasti vedovi, e questo consente di dire che l’Ortodossia, in linea di principio (e a differenza del Cattolicesimo romano) permette un solo vero matrimonio sacramentale in tutta la vita.

“Due polmoni”
Il paragone che vede nell’Occidente e nell’Oriente i due polmoni del mondo cristiano, che pur nella loro distinzione respirano la stessa aria dello Spirito, proviene dalla stessa Sede romana, ed è frequentemente usato come paradigma di apertura ecumenica.
Forse la scelta della metafora biologica sarebbe stata fatta in modo diverso, se si fosse avuto sott’occhio lo stesso paragone fatto nel contesto ortodosso da San Teofane il Recluso nella sua omelia di Pentecoste del 1860. Ne riproduciamo il passo in questione, lasciando ai lettori ogni eventuale commento.
“Ciò avviene perché in una parte dell’umanità gli organi della respirazione sono danneggiati, e un’altra pare, una parte ampia, non è neppure esposta all’influenza di questo soffio salutare. Perché la respirazione abbia il suo pieno effetto sul corpo, infatti, è necessario che tutti i condotti dei polmoni siano integri e privi di ostruzioni. Allo stesso modo, perché lo Spirito Divino manifesti il suo pieno effetto, è necessario che siano integri gli organi che Egli stesso ha stabilito per la propria acquisizione; vale a dire, i Divini Misteri e i riti religiosi dovrebbero essere preservati esattamente così come vennero stabiliti dai Santi Apostoli, guidati dallo Spirito di Dio. Laddove questi riti sono danneggiati, il soffio dello Spirito Divino non è pieno; di conseguenza, manca del pieno effetto. In questo modo tutti i misteri papisti [papistov nel testo originale] sono danneggiati, e molti riti religiosi salvifici sono pervertiti. Il Papato ha polmoni incrostati e infetti.”

Durata della Liturgia
Una delle caratteristiche che qualificano la Liturgia bizantina (e, in generale, tutto l’insieme dei riti sacri ortodossi) rispetto alla Messa romana è la sua maggiore lunghezza. In particolare, coloro che non vi sono abituati restano colpiti dalla frequente reiterazione delle preghiere pubbliche in forma di litania.
Anche se la maggiore lunghezza non è esagerata (a livello parrocchiale, una Liturgia domenicale non dura di solito oltre un’ora e mezza), essa contribuisce a dare un carattere di “atemporalità” alle funzioni, più consona allo spirito della celebrazione festiva.

Epiclesi eucaristica
Nel rito eucaristico della Chiesa ortodossa, un momento fondamentale è costituito dall’epiclesi, ovvero dall’invocazione dello Spirito Santo sui Santi doni, perché li trasformi nel Corpo e nel Sangue di Cristo. Questo momento dell’epiclesi è presente anche in molti altri momenti del culto ortodosso, tipicamente quando la Chiesa vuole sottolineare che certi effetti misteriosi non avvengono per volontà umana, ma per intervento di Dio.
Anche se la epiclesi non viene considerata l’unico fattore che determina la consacrazione eucaristica, nondimeno la teologia ortodossa riterrebbe priva di validità un’Eucaristia celebrata senza l’invocazione, almeno implicita, dello Spirito.
Inoltre, per la Chiesa ortodossa è la preghiera dell’epiclesi (recitata dopo le parole di istituzione) a perfezionare la trasformazione eucaristica: La Liturgia di San Giovanni Crisostomo, a questo proposito, è inequivocabile: “…e fa’ di questo PANE il prezioso Corpo del tuo Cristo”.
Per la teologia cattolico-romana, il momento della consacrazione è costituito dalle parole di istituzione (“questo è il mio corpo” e “questo è il mio sangue”), e la formula di epiclesi viene di solito considerata secondaria.
Prima del Concilio Vaticano II, il Canone eucaristico romano non conteneva una epiclesi esplicita; molti liturgisti ortodossi, tra cui il celebre Nicola Cabasilas, indicarono tuttavia nel paragrafo Supplices Te rogamus… una forma implicita di invocazione dello Spirito.
È significativo, inoltre, che negli antichi canoni eucaristici, l’epiclesi fosse sempre posta dopo le parole di istituzione, per indicare il culmine del processo di consacrazione. Così è tuttora nella liturgia bizantina, e così era nel rito latino per quanto riguarda il Supplices Te rogamus. Un fatto curioso del rito eucaristico romano post-conciliare è che l’antica Anafora di Ippolito (divenuta la Preghiera Eucaristica II) abbia subito una traslazione dell’epiclesi da dopo le parole di istituzione a prima, in una posizione più “neutrale”.
L’insistenza cattolico-romana sulle parole di istituzione non sembra peraltro giustificata in tutto l’ecumene cristiano: una delle antiche liturgie siriache, l’Anafora di Addai e Mari (tuttora in uso presso le chiese sire), è addirittura priva delle parole di istituzione.

Espiazione vicaria
Dalla scuola di Anselmo di Aosta (e, in origine, dalla concezione agostiniana del peccato originale ereditario) è pervenuta al Cattolicesimo romano una comprensione della Crocifissione come pagamento di una punizione, un “riscatto” che Cristo soffrì al posto del genere umano, costretto alla schiavitù al male per virtù del peccato originale.
L’Ortodossia ha una visione assai differente della sofferenza di Cristo e della sua morte sulla Croce: queste ebbero come fine la sconfitta del diavolo e la distruzione del suo potere, la morte (in questo caso, l’unico “riscatto” è quello pagato alla tomba). L’umanità partecipa al riscatto dal diavolo e dalla morte attraverso la padronanza sulle passioni: le sofferenze salvatrici di Cristo vengono così inserite in una cornice di preghiera, pubblica e privata, digiuno (rinnegamento di sé) e obbedienza volontaria, di cui il monachesimo è l’espressione più evidente.
La visione occidentale dell’espiazione vicaria portò a notevoli mutamenti di percorso, con l’introduzione di elementi quali la punizione ecclesiastica dei peccati, le opere supererogatorie, e tutta la cornice giuridica del Purgatorio (q.v.).
Tutto l’edificio teologico del peccato originale e dell’espiazione vicaria (con la sua assoluta necessità di una soddisfazione infinita per un’offesa, e la sua concezione tutto sommato mondana e passionale di giustizia, quasi riconducibile alla vendetta) mette in serio dubbio la bontà di Dio. Può anche essere visto come un pericoloso sintomo di ritorno al paganesimo, con la necessità dell’Incarnazione pari alla Necessità che regolava gli atti degli dèi.

Essenza ed Energie
I Padri della Chiesa, di fronte al problema della conoscibilità di Dio, furono molto attenti a distinguere tra un’essenza inconoscibile di Dio (che salvaguarda la sua differenza ontologica con l’uomo e il resto del creato) e le sue energie divine (increate, e fonte della comunicazione di Dio all’uomo). La distinzione tra essenza ed energie è uno degli insegnamenti più profondi dei Santi Padri sulla deificazione dell’uomo, e offre una spiegazione sulla natura della visione di Dio e delle esperienze spirituali.
Tale insegnamento fu rigettato dalla scolastica occidentale, che fece propria una dottrina della “visione dell’essenza divina” che Padri del calibro di San Basilio e San Giovanni Crisostomo avrebbero definito una bestemmia.
Nonostante recenti rivalutazioni della teologia patristica in materia di essenza ed energie, ancora nel recente Catechismo della Chiesa Cattolica (§ 1023), lo stato di beatitudine è chiamato “visione dell’essenza divina”.

Fede e Ragione
Seguendo i Santi Padri, l’Ortodossia si serve scienza e filosofia per difendere e spiegare la propria fede, ma senza cercare di riconciliare fede e ragione, o di provare la fede con la logica e la scienza: in questa attitudine, essa vedrebbe piuttosto un pericolo di cambiamenti di fede nel tentativo di adeguamento ai processi intellettuali del tempo. Dal periodo della scolastica (q.v.) in poi, il rispetto per la ragione umana ha portato i cattolicesimo romano a profondi ridimensionamenti in campo di teologia, sacramenti, e istituzioni ecclesiastiche.
Il Cattolicesimo romano insegna che la ragione può provare l’esistenza di Dio, e anche dedurne i suoi attributi (eternità, bontà, incorporeità, onnipotenza, onniscienza…); l’Ortodossia ritiene piuttosto che la conoscenza di Dio sia impiantata nella natura umana; salvo un intervento di Dio, la ragione umana non può scoprire altro.
Il classico detto della teologia romana “potuit, decuit, ergo fecit” (Dio ha il potere di fare qualcosa, Dio l’avrebbe voluta fare, e perciò Dio l’ha fatta), se viene preso come misura di come e quando Dio interviene nella storia, pone il teologo latino nella situazione impossibile di giudicare e dedurre quando Dio ha desiderato che una certa cosa accadesse. In questo caso l’infallibilità papale (q.v.) si rende necessaria per dirimere le controversie di ipotesi e spiegazioni contraddittorie.
L’importanza della ragione, che sta alla base del senso dello sviluppo dogmatico (q.v.), deriva (o piuttosto è sostenuta) dalla particolare antropologia del Cattolicesimo romano: questa asserisce che, di tutte le facoltà umane, la ragione sia la meno coinvolta nella caduta dell’uomo. L’Ortodossia ritiene invece che la ragione sia intaccata dalla caduta allo stesso modo di tutte le altre facoltà umane.

Festività alterate
La Chiesa cattolica romana ha spostato, o “sdoppiato”, alcune delle grandi festività dell’anno liturgico. Per esempio, il Battesimo del Signore, anticamente celebrato il 6 Gennaio, festa della Teofania o Epifania (vale a dire, manifestazione divina) viene oggi celebrato la domenica successiva. La Domenica della Trinità, divenuta festa a parte, un tempo formava un’unica festività con la Domenica di Pentecoste, e così via.
Nel rimanere fedele alle antiche festività, l’Ortodossia vuole anche insistere sul loro significato teologico, e teme che il loro senso venga indebolito o perduto con ripetizioni e spostamenti. Offriamo qui di seguito alcuni esempi esplicativi:
– L’adorazione dei Magi è collegata alla Natività del Signore, sia nella narrazione evangelica che nella comprensione della Chiesa ortodossa (come si può notare nella celebrazione del Natale ortodosso). Lo spostamento di questo evento alla festa dell’Epifania non solo crea una separazione artificiosa nel contesto della Natività, ma indebolisce l’idea stessa della manifestazione divina, derubandola dell’immagine della manifestazione della Trinità al battesimo nel Giordano.
– L’adozione da parte di tutta la cristianità occidentale dei giorni 1 e 2 Novembre per celebrare tutti i Santi, e la memoria dei defunti, proviene dall’antica chiesa irlandese. Questa pratica era mirata a cristianizzare la festa druidica di Samhain, il giorno celebrato con sacrifici pagani, in cui si credeva che le anime dei defunti tornassero sulla terra. A parte ogni considerazione sulla riuscita di tale iniziativa (il successo contemporaneo di Halloween nei paesi di lingua inglese può far nascere qualche dubbio in proposito), l’adozione indifferenziata di questo costume veramente locale per tutti i paesi cattolici di tradizione non celtica sembra una vera forzatura. Per di più, veniva soppiantata la pratica antica (tuttora osservata dagli ortodossi) di festeggiare tutti i Santi la domenica successiva alla Pentecoste (cosa che rafforza il legame logico tra la comunione dei Santi e lo Spirito “fonte di ogni santità”), nonché l’antico costume di dedicare al ricordo dei defunti tutti i giorni di Sabato, con l’introduzione di una “stagione dei morti” un po’ artificiosa.
– Gli eventi biblici che hanno sempre espresso la regalità di Cristo sono l’Ingresso a Gerusalemme, l’Ascensione e, in modo paradossale, l’iter della Passione. L’aggiunta di una nuova festa di Cristo Re, per quanto bene intenzionata, separa l’idea astratta della regalità di Cristo, quasi come una lode “politica” alla monarchia in sé, collocando la regalità in un contesto isolato dalla storia della salvezza.

Filioque
La Chiesa ortodossa mantiene inalterato il testo del Credo promulgato dal Primo Concilio di Costantinopoli (381), e solennemente ratificato dal Concilio di Efeso (431), che vietò (canone 7) di modificarne il testo.
In Occidente, in contraddizione a questo divieto, fu introdotta una clausola che resta tuttora uno dei punti fondamentali di differenza tra Ortodossia e Cattolicesimo romano. La Chiesa spagnola, nel Concilio di Toledo del 589, decise di introdurre, laddove il credo parla dello Spirito Santo “… che procede dal Padre”, la clausola “e dal Figlio” (filioque). Lo scopo di questa inserzione era di contrastare l’eresia ariana, che negava la divinità di Cristo. Asserendo che la processione dello Spirito avveniva sia dal Padre che dal Figlio, si voleva insistere sull’uguaglianza del Figlio e del Padre. Si veniva così a creare una confusione tra la processione eterna dello Spirito (sulla quale la Bibbia è categorica: “… lo Spirito di Verità, che procede dal Padre”: Gv 25,26) e la sua missione temporale, riguardo alla quale anche l’Ortodossia non obietta che lo Spirito sia stato “inviato nel mondo” dal Figlio.
In origine, la Chiesa di Roma fu contraria a questa innovazione nel Credo, a favore della quale si schierarono invece i Franchi. Ancora nell’anno 808, Papa Leone III, per resistere alle pressioni per la modifica del Credo da parte di Carlo Magno, faceva affiggere in San Pietro, sulle tombe degli Apostoli Pietro e Paolo, due tavole di argento con il testo originale del simbolo di fede.
La definitiva introduzione del filioque da parte della Chiesa romana, su pressione carolingia, fu uno dei punti sui quali si consumò lo scisma del 1054. Da allora, l’Ortodossia ha continuato a rimproverare il Cattolicesimo romano su questo punto, non solo per il “fratricidio morale” di avere cambiato unilateralmente la formulazione della fede, ma anche perché gli ortodossi ritengono il filioque teologicamente errato (il principio dell’unità nella Trinità, per i Padri della Chiesa anteriori ad Agostino, è l’esistenza di un solo Padre come fonte della vita trinitaria: facendo del Figlio una fonte della Terza Persona della Trinità, si ammetterebbero due principi primi).
Bisogna notare come il filioque sia per gli ortodossi un punto di differenza essenziale, mentre non lo è per i cattolici (la clausola compare nel Credo delle chiese cattoliche di rito latino, ma non in quelle cattoliche di rito orientale).
La formula del concilio unionista di Ferrara-Firenze (1438-1439) concedeva l’uso differenziato del Credo, con o senza il filioque, a seconda del “rito” di appartenenza. Lungi dal ritenerlo un atto di misericordia ecumenica, gli ortodossi ancor oggi considerano aberrante un simile atteggiamento: come può una Chiesa, che si considera portatrice di una fede unica, permettere al suo interno due formulazioni diverse della più solenne proclamazione di questa fede?

Funzioni cantate
Nella Chiesa ortodossa, tutte le funzioni sacre vengono cantate o intonate. Non esiste (come non è esistito nell’antichità cristiana) l’equivalente eucaristico della “Messa Bassa” del Cattolicesimo romano: tutta la Divina Liturgia, nelle sue parti “comuni” (vi sono anche preghiere sacerdotali recitate a bassa voce, ma non pubblicamente), viene cantata, anche nel caso che non vi fossero che il sacerdote e un singolo lettore o cantore. Questa insistenza si appoggia in parte al valore assegnato al canto dai Santi Padri, e ha permesso una continuità ininterrotta di tradizione musicale sacra.
D’altra parte, la presenza della “Messa bassa” si giustifica con l’introduzione medioevale delle celebrazioni multiple e simultanee nella stessa chiesa, cosa che gli ortodossi ritengono una seria deviazione dal principio dell’unicità della Liturgia (q.v.).

Funzioni “speciali”
La “diversificazione dei carismi”, che ha portato nel cattolicesimo romano alla nascita di così tanti ordini religiosi (q.v), ha creato anche una forma di sviluppo di funzioni di culto dedicate a singole categorie sociali, a singoli eventi, o a particolari richieste. Tale sviluppo di forme particolari è andato ben oltre alla composizione di singole preghiere, “contagiando” persino l’atto centrale del culto cristiano, la Santa Eucaristia (si può pensare, come esempio evidente, alle recenti “Messe per i giovani”). Questa non è un’innovazione contemporanea: già le complesse regole che diversificano le Messe per i defunti dalle altre celebrazioni eucaristiche permettono di tracciare tali tendenze alla specializzazione fin nell’Alto Medioevo. La coscienza ortodossa, forse in questo più “popolare”, non si è mai spinta oltre all’inclusione di alcune intenzioni di preghiera all’interno della Divina Liturgia. In tal modo non si è perduta la centralità dell’Eucaristia, che continua a parlare a ogni fedele e per ogni circostanza.

Giuridismo
Nella loro ricerca di una fede sincera e di una autentica bontà, che vadano a fondo nell’anima, gli ortodossi non possono sentirsi a casa propria vedendo il modo in cui il Cattolicesimo romano disciplina l’uomo esteriore, con una catalogazione di azioni “di precetto”, “proibite”, “permissibili”, “perdonabili”, “imperdonabili”; di peccati “mortali”, “gravi”, “veniali”; e così via.
L’Ortodossia sottolinea sempre l’aspetto spirituale della relazione tra l’anima e Dio, e tutti i sacramenti e la disciplina della Chiesa sono ordinati al fine di ristabilire questa relazione nella sua pienezza: la loro trasformazione in “leggi” nettamente definite e valide per tutti è vista come un tentativo di sostituire, con la genialità umana, una pienezza di grazia perduta.

Icone e sculture
Uno studio, per quanto sommario, dell’arte sacra della chiesa ortodossa, rivela subito l’assenza di statue tra le immagini a uso liturgico. Nelle chiese ortodosse si trova di norma una grande abbondanza di immagini pittoriche (icone su tavole, affreschi, mosaici, intarsi, ricami), ma non vi sono statue o immagini scolpite a tutto tondo (anche se non mancano i bassorilievi, spesso eseguiti in legno). Questo uso appare in perfetta coerenza con l’arte sacra del primo millennio cristiano, nel quale l’assenza di sculture fu universale. Numerosi motivi spinsero i primi iconografi cristiani a evitare l’uso delle statue: senza dubbio il timore di una identificazione con il culto pagano (innumerevoli esempi attestano la venerazione di divinità pagane attraverso le statue, mentre le immagini pittoriche non erano usate a questo scopo), ma ancor più il rifiuto di modellare l’arte sacra su criteri di realismo naturalistico.
In questo ambito ebbe anche un certo peso la fedeltà al testo dei dieci comandamenti così come fu tramandato dai Padri della Chiesa, e come è ancora in uso nella Chiesa ortodossa (“non ti costruirai idoli, né alcuna scultura di ciò che è in alto nel cielo, o che è sulla terra…”).
Il medioevo latino ha ripreso l’uso delle statue per scopi di arte religiosa, riuscendo forse ad attirare la devozione popolare su oggetti più “tangibili”, ma mondanizzando allo stesso tempo le immagini sacre e la loro venerazione.
Le statue, a differenza delle icone, non possono essere viste come un libro di teologia per chi non sa leggere (curiosamente, il mondo ortodosso usa frequentemente il verbo “scrivere” per indicare la creazione delle icone), ed è ben difficile vedere una statua come una “finestra” su qualsivoglia realtà.
Una statua attrae (o piuttosto distrae) l’attenzione su dimensioni fisiche, immaginative e romantiche: l’insegnamento ortodosso ritiene che l’unica icona tridimensionale appropriata sia l’essere umano vivente. L’Ortodossia non sostiene che le statue siano un male, ma solo che non siano appropriate come oggetti di venerazione, così come la musica ecclesiastica (q.v.) non si possa esprimere in modo appropriato con strumenti musicali.
L’Ortodossia non è peraltro contraria alle statue in un contesto non liturgico: la tradizione ortodossa ricorda una statua di Cristo eretta da una delle persone da lui guarite (l’emorroissa) nella città di Panas. Questa immagine, usata dagli ortodossi per sostenere l’accuratezza delle immagini di Cristo nelle discussioni con gli iconoclasti, ha tuttavia un mero valore di testimonianza storica.
Un altro paragone interessante si può fare a proposito della concezione di grazia: l’icona riflette l’insegnamento ortodosso della grazia increata e del suo impatto su tutta la creazione. La statua (che normalmente non è oggetto di venerazione, ma supporto di meditazione), riflette la teoria latina della grazia creata.

Immacolata Concezione
L’8 Dicembre 1854, con la bolla Ineffabilis Deus, Papa Pio IX proclamò di propria autorità come dogma di fede cattolica una dottrina mariologica controversa: “La beatissima Vergine Maria, nel primo istante della sua concezione, per grazia speciale di Dio onnipotente e per uno speciale privilegio, per anticipazione dei meriti di Gesù Cristo, Salvatore del genere umano, fu preservata immune da ogni macchia della colpa originale”.
Di tale insegnamento non si ha alcuna traccia prima del nono secolo, quando Pascasio Radberto, abate di Corvey, espresse l’opinione che la Santa Vergine fosse stata concepita senza peccato originale. Questa opinione era forse dettata dal desiderio di non associare Maria alla visione agostiniana (particolarmente pessimistica) del peccato originale. Prima di Pascasio Radberto, nessun teologo latino (neppure Agostino stesso) aveva mai sostenuto che Maria fosse santa fin dalla concezione.
Il mondo latino medioevale fu profondamente diviso su questo punto: Bernardo di Chiaravalle, Alberto Magno, Tommaso d’Aquino, e la scuola domenicana avversarono la dottrina dell’Immacolata concezione, mentre Duns Scoto e la scuola francescana la sostennero e la propagarono. Neppure il mondo dei mistici cattolico-romani portò una voce unita sul tema: Brigida di Svezia e Caterina da Siena ebbero rispettivamente una rivelazione favorevole e una contraria alla dottrina. Fu solo nel 1475 che un papa (Sisto IV) approvò una funzione di culto che insegnava esplicitamente l’Immacolata concezione, pur senza renderla un articolo vincolante di fede. L’uso liturgico e il patrocinio papale favorirono la strada alla proclamazione del dogma.
La coscienza ortodossa, in generale, pur ammettendo che il desiderio alla base di questa dottrina è quello di rendere maggiore gloria alla Vergine Maria e alla sua purezza, sostiene che questa dottrina la sminuisca, piuttosto che esaltarla. L’Immacolata concezione scava infatti un abisso tra Maria e il resto del genere umano, e getta un velo sulla ricca tradizione patristica che narra della lotta della Madre di Dio contro le passioni e le tentazioni. Può essere inoltre la base di tendenze aberranti a mettere Maria sullo stesso piano della divinità.
L’Ortodossia lascia comunque la dottrina dell’Immacolata concezione nella sfera delle opinioni teologiche, e nessun ortodosso viene considerato eretico se vi crede. Di fatto, alcuni celebri teologi ortodossi, tra cui il Patriarca di Costantinopoli Giorgio Scholario (+1472) e il Metropolita di Rostov San Dimitri Tuptalo (1651-1709), si pronunciarono in favore della dottrina.
Un conto è però accettare un’opinione, altro è proclamarla come dogma di fede, a fronte di una totale assenza di testimonianze in tal senso nelle Sacre Scritture, nei primi Padri, e nella fede dei primi otto secoli della Chiesa. L’Ortodossia non può accettare la necessità di “migliorare” la tradizione apostolica introducendo nei suoi fondamenti (i dogmi) un insegnamento tardivo e conflittuale.
Il nuovo dogma del 1854 segnò un altro allontanamento del Cattolicesimo romano dalla tradizione ortodossa: fu infatti l’opportunità di esercitare per la prima volta una potestà che si era venuta ad attribuire al Papa di Roma nell’età moderna: quella di definire dogmi di fede non per autorità di un Concilio Ecumenico, né per suo incarico, ma ex sese (da se stesso).

Infallibilità papale
Uno dei punti di fondamentale divergenza dottrinale tra cattolici romani e ortodossi è costituito dal dogma dell’infallibilità papale, sviluppato dalla teologia latina come conseguenza del dibattito sul primato della sede romana. La dottrina dell’infallibilità del singolo pontefice (e della conseguente irreformabilità dei suoi pronunciamenti) è assente nel primo millennio: sorse nel XIII secolo, per opera della scuola francescana di Pietro Olivi (la ragione che questa scuola aveva per difendere l’irreformabilità delle decisioni papali era, molto prosaicamente, una serie di decreti favorevoli all’ordine francescano: è degno di nota che lo stesso Papa Giovanni XXII, in disaccordo con le decisioni dei suoi predecessori, non esitò a scagliarsi contro la dottrina dell’infallibilità nella decretale Quia Quorundam del 1324).
Avendo proclamato di propria autorità (seppure in seguito alla consultazione dell’episcopato cattolico) il dogma dell’Immacolata concezione nel 1854, Pio IX si era appropriato il diritto di cambiare autocraticamente l’insegnamento della Chiesa romana, e dando alla propria voce un peso superiore a quello delle Sacre scritture e della Tradizione. La diretta conseguenza fu, nella costituzione Pastor Aeternus del Concilio Vaticano I del 1869, la dichiarazione dogmatica dell’infallibilità dei pronunciamenti solenni del pontefice romano in materia di fede e di morale.
La nozione di infallibilità non è estranea al mondo ortodosso, però vi resta limitata alle Sacre Scritture e al contenuto dogmatico dei Concili Ecumenici, in quanto espressione della voce della Chiesa: anche questi ultimi, perché la loro infallibilità venga riconosciuta, hanno bisogno di una ratifica reale da parte dei fedeli. Mai, nel corso della storia della Chiesa ortodossa, si è investito dell’infallibilità un singolo individuo, tanto meno come situazione stabile, di diritto.
I difensori dell’infallibilità papale continuano inoltre, agli occhi degli ortodossi, a non riuscire a risolvere l’impasse della condanna postuma di Papa Onorio I come eretico (monotelita), sia per decreto del Sesto Concilio ecumenico (Costantinopoli III, anno 680), sia del suo successore, il Papa San Leone II (anno 682). I tentativi di comporre questo contrasto comprendono le seguenti affermazioni:
1) L’insegnamento di Papa Onorio non era solenne (“ex cathedra”).
2) Le dottrine di Papa Onorio furono fraintese dai suoi accusatori.
3) L’insegnamento (per la sua vaghezza) era imprudente piuttosto che eretico.
La prima risposta lascia la questione irrisolta, perché quand’anche l’insegnamento di Papa Onorio non fosse stato solenne, la sua condanna come eretico lo è stata eccome (ed equivalente a un pronunciamento papale sulla fallibilità papale). La seconda e la terza soluzione, parimenti, pur scagionando Papa Onorio, gettano un’ombra di dubbio sul suo successore e su un Concilio ecumenico, e si avvicinano a un rigetto della loro autorità.
Il dibattito sulla solennità dei pronunciamenti papali si fa molto più acuto considerando l’importanza dei cambiamenti nel Credo (l’inserzione del filioque, condannata dai Papi Giovani VIII e Leone III, fu ratificata nel 1014 da Papa Benedetto VIII) nelle Sacre scritture (Papa Sisto V fece pubblicare una edizione latina delle Scritture, ordinando, sotto pena di anatema, che venisse considerata la più autentica; in considerazione di notevoli errori di traduzione, la Vulgata Sistina fu ritirata dall’uso ecclesiastico dai suoi successori) e nel culto (Papa Pio V vietò di modificare l’Ordinario della Messa di rito romano da lui promulgato).
Un’osservazione pratica che gli ortodossi amano fare al tema dell’infallibilità papale è che questo dogma rappresenta la sconfitta ultima del principio conciliare nella Chiesa, lasciando la conciliarità delle decisioni della Chiesa in balìa di un’autorità fondamentalmente priva di controllo.

“In Persona Christi”
Mentre l’Ortodossia insegna che la grazia dei sacramenti si infonde negli elementi materiali (pane, vino, acqua, olio) attraverso l’epiclesi (q.v.) o invocazione dello Spirito Santo, il Cattolicesimo romano ha un’enfasi molto più accentuata sul celebrante, che agisce “nella persona di Cristo” donando grazia ai sacramenti nel suo nome. Questo spiega anche perché le formule dell’amministrazione dei sacramenti si sono modificate, nella prassi cattolica romana, da deprecative (“il Servo di Dio N. è battezzato…”) in indicative (“N., io ti battezzo…”).
Il problema della concezione cattolica romana sorge quando si inizia a confondere il ruolo del prete come rappresentante della persona di Cristo con l’altro ruolo (attestato da una prassi ben più antica) di rappresentante del vescovo, che a sua volta dovrebbe essere “icona di Cristo” nella sua diocesi.

Libri liturgici
I libri di culto della tradizione cattolica romana sono più volte stati riformati, subendo numerose semplificazioni e riduzioni (soprattutto dopo il Concilio Vaticano II): per seguire le ufficiature pubbliche della Chiesa romana, possono essere sufficienti il Messale e il Breviario.
La Chiesa ortodossa mantiene una maggiore quantità di testi (circa 5000 pagine a stampa) necessari per le ufficiature, e comprendenti una piccola biblioteca di una ventina di volumi.
Tali libri, a prima vista di difficile padronanza, costituiscono uno dei tesori più preziosi della Chiesa ortodossa, e una loro revisione in senso riduttivo sarebbe vista come un atto di autolesionismo.

Lingua vernacolare
La Chiesa ortodossa ha sempre rispettato il diritto dei fedeli a partecipare a funzioni di culto tenute in una lingua a loro comprensibile.
Se avviene che in certe chiese venga usata una lingua più arcaica al posto di quella di uso corrente (nel mondo greco si usa la forma antica della lingua greca; nelle chiese slave la lingua liturgica è il paleoslavo, o antico slavo ecclesiastico, invece delle lingue correnti come il russo, e così via), è pur vero che queste lingue arcaiche sono tuttora comprensibili a livello popolare.
L’adozione universale della lingua parlata nella Chiesa cattolica romana risale al periodo seguente al Concilio Vaticano II, e talora l’imposizione forzata di una fraseologia “moderna” ha creato non poche delusioni. Forte di una tradizione millenaria di liturgia vernacolare, che riesce a essere genuinamente popolare senza scadere nella banalità, l’Ortodossia avrebbe forse qualche esempio da offrire in materia.

Liturgia
Il termine “liturgia”, che in Occidente è in uso per indicare tutto l’insieme dei riti e delle celebrazioni ufficiali della Chiesa, in Oriente indica principalmente la celebrazione dell’Eucaristia (ed è con questo significato che, ai tempi del Rinascimento, il termine fu “trapiantato” dalla Grecia nel lessico religioso della Chiesa di Roma). Ancor oggi, con Liturgia, o Divina Liturgia, un ortodosso intende quella che nel mondo latino viene chiamata Messa, o Santa Messa.

Liturgia “ortodossa” o “bizantina”?
Spesso si fa riferimento all’antica Liturgia bizantina chiamandola “Liturgia ortodossa”, sorvolando sul fatto che anche le antiche Liturgie occidentali (romana, ambrosiana, gallicana, e così via), nate nel contesto di piena fede ortodossa della Chiesa del primo millennio, hanno il medesimo diritto a questo appellativo.
Nella coscienza ortodossa, “Ortodossia” non è sinonimo di “rito orientale” (l’identificazione operata in tal senso in ambiente cattolico romano viene vista come un abuso), ma di pienezza di fede. Un rito differente, purché sia capace di esprimere la stessa pienezza, sarebbe altrettanto legittimo e “ortodosso” di quello bizantino.
Di fatto, certi gruppi di ortodossi in Occidente hanno adottato o riadattato antichi riti occidentali a proprio uso, con zelo e dedizione per la riscoperta delle radici ortodosse della cristianità latina.

Massoneria e fede cristiana
Come accade nel Cattolicesimo romano, anche nell’Ortodossia l’appartenenza di un membro della Chiesa alla massoneria è strettamente proibita, e comporta la scomunica. La relativa scarsità di sentenze esplicite di condanna, tuttavia (mentre la Chiesa cattolica romana ha emesso in due secoli e mezzo oltre cinquecento scomuniche), ha fatto sì che la Chiesa ortodossa venisse spesso accusata, da parte romana, di compromessi con il mondo massonico.
L’accusa è quanto meno strana, se si considera che il nucleo delle obiezioni cristiane alla massoneria è rivolto al relativismo in questioni di fede: una imputazione difficilmente applicabile alla Chiesa ortodossa, che nel corso dei secoli ha patito indicibili umiliazioni proprio per non transigere sui punti fermi della fede.
La posizione della Chiesa romana in materia è indubbiamente più chiara, e le sue ragioni sono più debitamente espresse e articolate. Tuttavia, l’assenza di ripetute condanne da parte ortodossa è sintomo di un atteggiamento verso i problemi giuridici molto meno categorico e conflittuale. L’Ortodossia, una volta riconosciuta l’incompatibilità di una data posizione filosofica o dottrinale con la fede cristiana, non sente il bisogno di reiterare continuamente la propria posizione, come se bastassero alcuni secoli o decenni a “esaurire” le sue ragioni.

Meditazione
La tradizione spirituale ortodossa fa raramente uso dei sistemi di ‘meditazione discorsiva’, impiegati nel Cattolicesimo romano sin dai tempi della Controriforma (si pensi ai metodi di esercizi spirituali stabiliti da Ignazio di Loyola e da Francesco di Sales). Una probabile ragione di questa assenza è la ricchezza e frequenza di testi-chiave e di immagini che si può riscontrare nelle ufficiature ortodosse, particolarmente nelle grandi feste e nei periodi quaresimali. Questa abbondanza è sufficiente a nutrire l’immaginazione del fedele, che non ha più bisogno di ripensare quotidianamente il messaggio dei servizi della Chiesa in un periodo di meditazione formale. Nell’addestramento alla preghiera esicasta, anzi, la meditazione su immagini e sentimenti è positivamente scoraggiata, in quanto aprirebbe la strada a illusioni emotive e autosuggestioni.

Ministri Straordinari dell’Eucaristia
Il nuovo ruolo dei Ministri Straordinari dell’Eucaristia, ora affidato nella Chiesa cattolica romana (di rito latino) anche a laici che dovrebbero essere adeguatamente istruiti, è divenuto fonte di molte violazioni delle istruzioni liturgiche e di atteggiamenti ben poco riverenti.
Se da una parte si vuole attribuire tutto questo a spontaneismo e mancanza di preparazione, nondimeno resta acuto il contrasto con secoli di accuse, da parte cattolica romana, di scarsa riverenza eucaristica tra gli ortodossi, solo perché questi non avevano atti di adorazione eucaristica (q.v.), e non esponevano le sacre Specie alla venerazione dei fedeli.

Ministro della Cresima
Nel medioevo, il mondo latino restrinse l’amministrazione della cresima ai soli vescovi, facendo della cresima un sacramento sempre più separato dalla vita parrocchiale; nel tredicesimo secolo, si giunse alla sua completa separazione dal battesimo, sdoppiando così la pratica dell’iniziazione cristiana.
La relativa difficoltà di cresimare i fanciulli nel mondo cattolico romano (erano richieste a tal fine apposite visite episcopali), e i frequenti casi di bambini morti prima della cresima, portarono i teologi latini (forse non senza l’intento di tranquillizzare i fedeli) a sviluppare un nuovo insegnamento: che la cresima non sia un sacramento incondizionatamente necessario per la salvezza.
Anche se, progressivamente (partendo dalle necessità in terre di missione), la Chiesa romana ha reintrodotto l’uso di far amministrare la cresima dai presbiteri, questi rimangono ministri straordinari, e in via ordinaria il ministro è sempre il vescovo.
Nella Chiesa ortodossa, la cresima può essere amministrata da qualunque sacerdote, usando il crisma (ovvero il Santo Myron) consacrato dal vescovo.
Non andrebbe dimenticata, parlando di innovazioni latine nella cresima, l’adozione di una serie di usi cavallereschi medioevali (come lo schiaffo dato dal vescovo al neocresimato), che, oltre a snaturare il senso del sacramento facendone un rito di tono bellico, furono causa di numerose offese ai costumi dei popoli orientali.

Ministro del Matrimonio
Il sacramento del matrimonio è visto in modo molto diverso dall’Ortodossia e dal Cattolicesimo romano, sia a livello di principi teologici che a livello di prassi liturgica e pastorale.
Il celebrante del sacramento, per gli ortodossi, è sempre il vescovo o prete officiante; la tesi sostenuta nel mondo cattolico romano, che i veri celebranti del matrimonio siano gli sposi stessi, ha le sue origini nel giuridismo teologico medioevale. Arrivando a considerare il matrimonio con le categorie giuridiche del contratto, la logica conclusione fu quella di considerare come figure centrali i “contraenti”, mentre l’autorità che presiede si limita a ratificare la benedizione della Chiesa.
Questa linea di principio ha poi fatto nascere alcuni controsensi all’interno dello stesso mondo cattolico romano; per esempio, per “rispettare la tradizione” delle Chiese orientali cattoliche, ai diaconi cattolici di rito orientale è proibito celebrare riti matrimoniali, mentre ai diaconi di rito latino è concesso, in quanto semplici “assistenti” degli sposi-celebranti.

Missione
Il concetto di missione nell’Ortodossia e nel Cattolicesimo romano è piuttosto differente, e spesso, giudicando la Chiesa ortodossa con i parametri di missione invalsi nel cristianesimo occidentale, si è giunti a definire l’Ortodossia come carente dal punto di vista missionario.
La fase iniziale della missione cattolica è stata tradizionalmente affidata agli ordini religiosi (q.v.), che si prendevano cura di intere zone o paesi, avviando le attività ecclesiali secondo la loro particolare regola, fino alla costituzione di strutture diocesane locali (ma spesso anche le cariche episcopali venivano affidate allo stesso ordine religioso che aveva compiuto l’evangelizzazione del luogo). Anche le società missionarie protestanti, seppure in un’ottica di rifiuto degli ordini religiosi, si muovevano su linee simili.
Nell’Ortodossia, Chiesa e missione sono visti in modo molto più inseparabile. Il temine ortodosso (e neotestamentario) per “missionario” è apostolo, e la funzione missionaria è parte integrante dell’aspetto di apostolicità della Chiesa. Ne consegue che lo sforzo di evangelizzazione non può essere appannaggio di un singolo settore, come un ordine religioso o una società di fedeli (spesso agli inizi della missione ortodossa si trovano dei monaci, ma senza strutture centralizzate che ne regolano l’attività), e che questo sforzo deve essere sempre soggetto all’autorità del vescovo locale, e coordinato all’interno della Chiesa locale.

Movimento carismatico
La reazione di cattolici e ortodossi al movimento carismatico moderno è un ennesima riprova di una profonda differenza di valutazione degli stessi fenomeni.
Di fronte all’ondata di risveglio pentecostale, originatasi per lo più in ambiente protestante, la Chiesa di Roma, dopo un periodo di diffidenza iniziale, verso la fine degli anni ’60 ha aperto le porte alla religiosità di tipo carismatico, incoraggiando la formazione di movimenti carismatici nel proprio seno.
L’Ortodossia, d’altro canto, non ritrovando paralleli accettabili nella tradizione patristica e ascetica della Chiesa, vede il movimento carismatico come una delle tante “nuove spiritualità”, più o meno deviate, del mondo moderno. Inoltre, per gli ortodossi, fare propria una realtà di “risveglio” che nasca al di fuori della pienezza della Chiesa (la tradizione ortodossa) equivale ad accettare una nuova rivelazione che, di fatto, trascende la Chiesa.
E così, mentre nel Cattolicesimo romano i movimenti carismatici, con l’avallo della gerarchia, moltiplicano le esperienze di una spiritualità sempre più estranea alla tradizione cattolica, i rari tentativi di importare un risveglio carismatico nella Chiesa ortodossa vengono per lo più visti come infiltrazioni di una concezione eterodossa della Chiesa.
Il primo inizio di movimento carismatico ortodosso, avviato in America su iniziativa di un prete greco, Padre Eusebios Stephanou, si è concluso con la completa abiura del promotore, che ne ha riconosciuto la fallacità.

Musica ecclesiastica e strumenti
Nelle chiese ortodosse, con l’eccezione di alcune chiese greche (per esempio, nelle Isole Ionie) che hanno a lungo subito un influsso latino, è virtualmente impossibile trovare strumenti musicali a uso liturgico. Per quanto le Sacre Scritture siano ricche di immagini di lode a Dio attraverso strumenti musicali, infatti, i Padri della Chiesa esortarono all’uso della sola voce umana negli inni, sull’esempio di nostro Signore e dei suoi discepoli. Le Costituzioni Apostoliche del IV secolo vietano l’uso di strumenti musicali nella chiesa, e la prassi ortodossa è rimasta invariata da allora.
In Occidente, invece, l’uso degli strumenti risale al periodo carolingio, quando furono insediati nelle chiese i primi organi. Per colmo dell’ironia, furono proprio gli imperatori greci di Bisanzio (che usavano gli organi a corte e all’ippodromo) a fare dono di questi strumenti ai re carolingi (Costantino I Copronimo ne donò uno a Pipino il Breve, e Michele III Rangabe ne offrì uno a Carlo Magno).
Ancora oggi, gli ortodossi vedono nell’uso liturgico di strumenti musicali una disubbidienza alle regole e allo spirito dei Padri, e un pericoloso principio di commistione tra musica sacra e musica profana.

Numero dei Sacramenti
La Chiesa ortodossa ha in comune con il Cattolicesimo romano la dottrina dei Sette Sacramenti (o Misteri, secondo la terminologia greca): tuttavia, la differenza tra sacramenti e sacramentali non vi è delimitata in modo così netto: il numero sette non ha un significato dogmatico assoluto nella teologia ortodossa, e alcuni riti, come la tonsura monastica o l’unzione dei sovrani, vengono considerati in modo informale come sacramenti. Lo stesso uso del termine greco “Misteri” sembra suggerire una connotazione più interiore, laddove il latino “Sacramenti” pare insistere più sugli atti rituali esteriori.

Ordini cavallereschi
Nell’ortodossia storica gli ordini religiosi cavallereschi brillano per la loro assenza. (Non sarebbe onesto definire “ordine cavalleresco”, per esempio, l’aberrazione degli oprìchniki, la guardia privata dello Zar Ivan IV il Terribile, in cui si giunse talvolta a parodie della vita monastica; neppure alcuni ordini nobiliari tuttora esistenti nella Chiesa ortodossa possono rientrare in questa categoria, perché si tratta di onorificenze civili e non di ordini religiosi).
Può sembrare strano, visto il forte carattere monastico della spiritualità ortodossa, e il sentimento di rispetto che le nazioni ortodosse hanno sempre mostrato per l’esercito e i difensori della patria, che non si sia sviluppata una figura di “monaco guerriero” pari a quelle del Medioevo latino.
Bisogna ricordare, tuttavia, che rimane ancora forte il risentimento degli ortodossi per le crociate, che furono la culla di questi ordini (e che causarono innumerevoli stragi, sacrilegi e distruzioni nell’Impero bizantino), e, soprattutto, che il monaco ortodosso, nel suo rifiuto del mondo, rifiuta anche l’illusione di poter migliorare le sorti dell’umanità con una azione concertata di stile gerarchico-militare.

Ordini Maggiori
Fin dai primi secoli, la Chiesa ha suddiviso il sacerdozio ministeriale in tre gradi o funzioni, chiamati Ordini maggiori: quelli di diacono, di presbitero (= prete) e di vescovo. Altre funzioni ministeriali, come quelle dei suddiaconi (di cui si ha notizia già nel III secolo), dei lettori e dei cantori, venivano considerate come “Ordini minori”, non istituiti da Cristo. La stessa “imposizione delle mani” (il gesto rituale che accompagna ogni ordinazione) viene tuttora definita nella Chiesa ortodossa con due termini diversi (chirotonìa e chirotesìa), a seconda che si tratti di ordinazioni maggiori o minori.
La Chiesa romana, dalla fine del XII secolo, ha voluto far rientrare l’ordine minore del suddiaconato nel novero degli Ordini maggiori. Per salvaguardare la dottrina dei tre gradi del sacerdozio, ha dovuto sostenere che gli Ordini maggiori fossero quelli di suddiacono, diacono e presbitero, escludendone quello del vescovo, visto come funzione di “pienezza” del potere sacerdotale.
La recente riforma liturgica della Chiesa cattolica romana ha visto la soppressione dell’ordine del suddiaconato, senza dubbio al fine di operare un ritorno all’antica tradizione, ma con la conseguente illogica scomparsa di quello che era stato per secoli un Ordine maggiore.

Ordini religiosi e monachesimo
L’Oriente conosce un solo “ordine” monastico, il monachesimo integrale (per quanto questo sia vissuto in diversi gradi di intensità, dal noviziato fino allo stato del “grande abito”, corrispondente alla vita monastica “di stretta osservanza”).
L’Ortodossia pertanto, pur avendo una grande varietà di monasteri e di modalità di vita monastica (vita comune, anacoretismo o eremitaggio, vita in piccoli nuclei fraterni) non ha nulla di simile agli “ordini” religiosi cattolici. Talvolta si definisce “monachesimo basiliano” lo stato monastico ortodosso (dalla regola di San Basilio, uno dei primi codificatori della vita monastica comunitaria), ma il termine è una forzatura, e in senso stretto dovrebbe applicarsi solo ai non numerosi nuclei di monaci cattolici di rito bizantino.
La “specializzazione dei carismi”, tanto tipica degli ordini religiosi cattolico-romani, fino ai nostri tempi, ha fatto sorgere ordini esplicitamente votati ad aspetti isolati della vita religiosa (e tipicamente della vita religiosa attiva, come la predicazione o l’assistenza agli infermi). Questo costume ha creato in effetti dei compartimenti stagni di spiritualità, portando la vita religiosa sempre più lontano dall’antica esperienza monastica integrale.

Pane eucaristico
La comune prassi liturgica nel primo millennio del cristianesimo richiedeva che il pane eucaristico fosse lievitato. L’usanza di impiegare pane azimo fu introdotta in epoca piuttosto tarda (IX secolo) dalla Chiesa armena, da tempo separata dalla comunione delle Chiese ortodosse. In seguito, l’uso fu adottato da tutta la cristianità latina.
Contro l’uso del pane azimo, la Chiesa ortodossa ha sempre obiettato su tre punti: 1) Il Vangelo dice che Gesù prese il pane (àrton) e non l’azimo; 2) questa pratica confonde la liturgia cristiana con gli usi ebraici; 3) il lievito nel pane è come l’anima per il corpo, e il pane lievitato simbolizza la piena umanità di Cristo, con tutte le energie viventi dell’umanità, in conformità alla cristologia del Concilio di Calcedonia (451).
Oggi la Chiesa cattolica romana fa uso di pane azimo o lievitato a seconda dei “riti”, mentre la Chiesa ortodossa insiste sul mantenimento dell’antica tradizione, mostrando su questo punto una certa intransigenza (poiché gli elementi da consacrare sono di importanza fondamentale nell’Eucaristia).
Poiché il pane azimo non richiede preparazioni speciali durante il rito eucaristico, l’intera fase preparatoria della Presentazione dei doni (Proscomidia) è stata perduta nel rito romano. In tal modo, i fedeli vengono privati dell’antica usanza ecclesiastica di commemorare i membri della chiesa, vivi e defunti, e pregare che i loro peccati vengano lavati nel Sangue di Cristo, così come le particole di pane offerte per loro vengono immerse nel calice eucaristico.
La differenza tra l’ostia grande del celebrante latino, e le piccole ostie per comunicare i fedeli, è una ulteriore privazione del senso simbolico della partecipazione all’unico pane (cfr. 1 Cor 10,17).

Padri della Chiesa
La dottrina cattolico-romana fissa un limite temporale all’età dei Padri della Chiesa: perché si possa parlare di Padri, si richiede per loro, oltre ai requisiti della santità, dell’ortodossia dottrinale e dell’approvazione ecclesiastica, anche quello dell’antichità. Dopo un certo periodo, fissato per lo più al tempo di Sant’Isidoro di Siviglia (c.560-636) per l’Occidente, e di San Giovanni Damasceno (c.675-749) per l’Oriente, la Chiesa non produce più Padri, ma, tutt’al più, Dottori. La distinzione non è solo a livello terminologico: il Padre, per sua stessa funzione, “genera” o “forma” una dottrina (traendola, beninteso, dalla fede apostolica), mentre un Dottore la “sviluppa” o la “sistematizza”.
La Chiesa ortodossa, d’altro canto, ritiene assurdo definire chiusa l’epoca dei Padri, come se si trattasse di un ciclo di eventi passati. Anche nella nostra epoca, o in un lontano futuro, Dio può suscitare nella Chiesa dei personaggi che possono ricoprire lo stesso ruolo dei Padri del passato. L’acquisizione di una mente patristica, ovvero una comunione di intenti e di spirito con i Santi Padri, è del resto una meta costante dell’ascesi monastica ortodossa.
Sostenere che l’età dei Padri è chiusa, peraltro, equivale ad affermare che lo Spirito Santo ha abbandonato la Chiesa, non avendo più il potere di produrre persone in grado di “formarla”.

“Papa”: un titolo non esclusivo
Udendo la parola “Papa,” si pensa subito al vescovo di Roma, e forse molti restano sorpresi quando vengono a sapere che anche il Patriarca ortodosso di Alessandria porta il titolo di Papa, e così pure il Patriarca della Chiesa copta, che pure non è in piena comunione con la Chiesa ortodossa né con la Chiesa cattolica romana. Peraltro, il titolo di “Papa” è giunto a Roma dall’Egitto, e non viceversa. L’appellativo (che significa genericamente “padre”), deriva dagli usi della Chiesa alessandrina, di cui il Patriarcato di Roma adottò numerose usanze liturgiche durante il primo millennio (basti pensare ai flabelli, o ventagli di piume, usati nel Pontificale romano e risalenti con una certa probabilità al cerimoniale dell’antico Egitto).

Pasqua e le altre festività
Per l’Ortodossia, la Pasqua è la “festa delle feste,” tanto da non essere neppure annoverata tra le “dodici grandi feste” del ciclo cristologico, e da occupare un posto a parte, di assoluta centralità. L’enfasi occidentale sull’Incarnazione e sul dramma della Passione si fa sentire ancora nel Catechismo di Papa Pio X, dove la lista dei principali misteri della religione cristiana include l’Incarnazione, la Passione e la Morte del Signore, senza menzionare esplicitamente la Risurrezione.

Peccato e caduta dell’uomo
La concezione agostiniana del peccato come eredità di natura ha esercitato una straordinaria influenza sulla teologia occidentale; secondo il pensiero patristico dell’Oriente, invece, solo l’intelletto libero e personale può commettere peccato, che non è mai un atto di natura. Il peccato di Adamo apre le porte alla mortalità, e all’ottenebramento delle passioni, ma questa colpa ancestrale (come del resto la salvezza) può realizzarsi in ogni persona solo coinvolgendo la sua libera volontà.
Questo contrasto si è fatto acuto nella polemica sul destino dei bambini non battezzati, che per Agostino restano comunque eredi della colpa, e riguardo al tema dell’Immacolata concezione (q.v.), che per l’Ortodossia è privo del fondamento di una vera e propria colpa ereditaria da cui Maria sarebbe stata preservata.
E’ opportuno altresì ricordare che per la teologia occidentale, per la quale la caduta di Adamo avvenne da uno stato di grazia e conoscenza, la colpa originale è valutata con parametri diversi da quelli dei Padri orientali, per i quali Adamo cadde da uno stato di ignoranza innocente.

Periodi di digiuno
La tradizione cattolica ha gradualmente soppresso nel tempo i periodi quaresimali di astinenza e di digiuno (tanto da arrivare ai tempi attuali a un precetto di digiuno pressoché simbolico, limitato ai venerdì di Quaresima e al Mercoledì delle Ceneri).
Gli ortodossi, in conformità con i costumi della Chiesa del primo millennio, mantengono tuttora quattro periodi quaresimali:
1- la Grande Quaresima (sette settimane prima della Pasqua, corrispondenti alla quaresima latina)
2- il Digiuno degli Apostoli (dal termine dell’ottava di Pentecoste fino alla festa dei Santi Pietro e Paolo, il 29 Giugno)
3- Il Digiuno dell’Assunzione (i primi 15 giorni di agosto)
4- Il Digiuno di Natale (quaranta giorni, dal 15 novembre al 24 Dicembre)
Inoltre, sono giorni di digiuno e astinenza tutti i mercoledì e i venerdì dell’anno (nei monasteri anche i lunedì), le vigilie delle grandi feste, e alcune festività particolari, come quella dell’Esaltazione della Santa Croce (14 Settembre). Le eccezioni a questi periodi di digiuno sono poche, ed è stato calcolato che nella vita degli ortodossi sono più numerosi i giorni di digiuno di quelli in cui è lecito di cibarsi di ogni cosa.

“Per molti”, o “per tutti”?
Nella versione vernacolare del Novus Ordo Missae cattolico romano, in numerose lingue moderne (tra cui l’italiano), il termine “multis” delle parole di istituzione eucaristica (“questo è il mio Sangue, che per voi e per molti si versa in remissione dei peccati”), è stato tradotto con “tutti”: questo punto marca una considerevole deviazione non solo dalla pratica ortodossa, ma anche dalla teologia cattolica romana del periodo tridentino.
Il Catechismo del Concilio di Trento, in accordo su questo punto con la teologia ortodossa antica e moderna, condanna l’uso del termine “tutti” per indicare coloro per cui il Sangue di Cristo viene sparso. Il Catechismo fa un esplicito paragone tra il sacrificio di Cristo e la sua preghiera al Padre, in cui Egli prega per coloro che il Padre gli ha dato, e non per il mondo: il sangue viene sparso per coloro che accettano Cristo, e non per tutti indistintamente, poiché se tutti possono volgersi a Cristo, non tutti lo hanno fatto.
Questo cambiamento terminologico è di particolare gravità, non solo perché sono state mutate le parole stesse di Cristo, ma perché, per la teologia cattolica romana, queste parole sono la chiave della consacrazione eucaristica.

Pneumatologia
Per la coscienza ecclesiale ortodossa, la scarsa attenzione portata allo Spirito Santo nel cattolicesimo romano è un frutto della stessa distorsione della teologia trinitaria che produsse anche il filioque (q.v.). Per accorgersi di tali lacune, è sufficiente vedere quanto poco spazio sia dedicato nei testi teologici occidentali all’attività dello Spirito Santo nel mondo, nella Chiesa, nella vita dei singoli cristiani. A colmare questa carenza, sorse un eccesso opposto di accettazione della Chiesa come istituzione terrena. La mancata ricostruzione di una pneumatologia (scienza dello Spirito Santo) basata sulla comprensione patristica lascia aperto il campo a numerose visioni alternative, quali quelle del movimento carismatico (q.v.). Di fronte a ogni tentativo ecumenico di appianare le divergenze minimizzando la questione del filioque, l’Ortodossia non può che rispondere che ogni insegnamento falso sullo Spirito Santo è un colpo diretto alla Fede della Chiesa.
Una delle ragioni dell’insistenza ortodossa su un’adeguata dottrina dello Spirito Santo è anche quella di ridimensionare il concetto di autorità: non è l’autorità a rendere tale la Chiesa, ma l’inabitazione in essa dello Spirito, che rende reale la presenza di Cristo tra gli uomini e negli uomini. Anche se esiste posto nella Chiesa ortodossa per un esercizio dell’autorità (Vescovi, Concili, Sacre Scritture, Tradizione), questa è solo una delle espressioni di tale presenza.

Precetto festivo
Anche se alcune Chiese ortodosse locali, nella loro disciplina canonica, includono una regola di partecipazione alla Liturgia domenicale che è molto simile al “precetto festivo” del cattolicesimo romano (e in alcuni casi ne sembra evidentemente influenzata), gli ortodossi si sentono piuttosto a disagio con la “obbligazione” cattolica romana al culto domenicale (come se la partecipazione alla Liturgia fosse un atto di dovuta cortesia, piuttosto che la partecipazione al dono della salvezza).
Forse il concetto della Liturgia come scuola potrebbe aiutare a chiarire questa scarsità di precetti: essendoci così tante funzioni ricche di contenuto teologico, coloro che cercano di approfondire la propria conoscenza spirituale si sforzano di essere presenti a quante più funzioni possibili, e anche la durata (q.v.) delle funzioni assume un carattere pedagogico.

Preparazione alla Santa Comunione
Il profondo senso di venerazione degli ortodossi per l’eucaristia fa sì che i fedeli dedichino una particolare attenzione alla preparazione alla comunione, partecipando alla funzione di Veglia (o quanto meno al Vespro) alla sera prima, o supplendo alla preghiera pubblica con adeguate preghiere preparatorie. La stessa prassi vuole che chi desidera comunicarsi si astenga alla sera prima da attività dispersive (come la danza) o, nel caso di sposi, da rapporti coniugali (questo non per disprezzo verso la sessualità, ma per un senso di priorità del nutrimento dello spirito).
Nel mondo cattolico romano, la totale scomparsa di questi precetti, oltre all’estrema semplificazione delle norme sul digiuno (q.v.), espone facilmente alla banalizzazione dell’atto centrale e più sacro della vita del cristiano.

Primato di giurisdizione universale
Oltre all’infallibilità papale (q.v.), il concilio Vaticano I promulgò una definizione dogmatica riguardo al primato papale, meno nota di quella dell’infallibilità, ma altrettanto inaccettabile agli occhi della tradizione ortodossa. Si tratta della giurisdizione universale del pontefice romano, che fa del Papa di Roma, per il fatto stesso della sua elezione al soglio pontificio, una sorta di super-Ordinario universale, superiore di diritto a qualsiasi vescovo. Ne consegue che, per la concezione cattolica romana, un vescovo è vescovo della Chiesa cattolica solo in virtù della sua comunione con il papa. Quest’ultimo diventa il solo vescovo in senso proprio, e tutti gli altri i suoi vescovi vicari, in diretto conflitto con i canoni della Chiesa, che apertamente vietano l’interferenza di un vescovo nella giurisdizione di un altro, eccetto che per ben definiti rimedi conciliari (simbolicamente, un corpo con due capi visibili è un mostro).
L’Ortodossia vede in questa forma di primato la costituzione di un vero e proprio Ordine sacro al di sopra dell’episcopato, un Ordine non istituito da Cristo, e senza precedenti nella storia cristiana; non cessa quindi di richiamare la sede romana al sobrio modello dello stesso Papa Gregorio Magno, che giunse a rimproverare il Patriarca di Costantinopoli perché aveva accettato dall’imperatore il titolo di “Patriarca ecumenico” (in verità, non per elevare la sua giurisdizione, ma per sottolineare il fatto che Costantinopoli era la capitale dell’impero), laddove, a suo dire (Libro V, Lettera XVIII), nessuno degli apostoli o dei predecessori di San Gregorio nella sede romana aveva mai vantato un rango universale…

Professione monastica
La professione monastica mantiene nella Chiesa Ortodossa un carattere di benedizione sacramentale, uniforme e analoga per tutti gli aspiranti alla vita “angelica.”
Nella Chiesa cattolica romana sono stati introdotti nel periodo medioevale alcuni elementi esterni al monachesimo, che si sono fatti strada negli ordini religiosi (q.v.) fino ai giorni nostri. Per esempio, sotto l’influsso di ordini cavallereschi (q.v.), la professione monastica assunse alcuni elementi della cerimonia di vassallaggio: questi, pur esaltando alcuni aspetti del monachesimo, tra cui l’obbedienza, alteravano in modo sottile la tradizione monastica precedente.
Il cambiamento più notevole, influenzato dalla predicazione di Bernardo di Chiaravalle e Francesco d’Assisi, si ebbe nel tardo medioevo negli ordini religiosi femminili cattolici. All’enfasi sulla redenzione per mezzo della Risurrezione, si sostituì l’ideale della partecipazione emotiva alla Passione del Signore. Considerando Cristo come marito/amante mistico, il monachesimo femminile si caricò di immagini sponsali, con tanto di assimilazione del rito della tonsura alla cerimonia nuziale, con veli da sposa, anelli di matrimonio, e così via. Tale variazione crea un’arbitraria frattura tra la vita religiosa femminile e quella maschile, priva di dimensioni “sponsali” istituzionali, a discapito di quest’ultima (la disparità numerica tra religiose e religiosi cattolici romani ne è ancora oggi un risultato).

Purgatorio
In sintonia con i Padri della Chiesa, la teologia ortodossa parla di uno stato intermedio dopo la morte, di beatitudine per i giusti e di tormento per i peccatori: uno stato ancora privo (prima del Giudizio Finale) di un carattere definitivo. Per coloro che sono morti con piccoli peccati inconfessati, o che non hanno portato frutti di pentimento per i peccati confessati in vita, si parla della purificazione di questi peccati o nella prova della morte, o attraverso l’intercessione della Chiesa (con la preghiera e le buone opere dei fedeli). Questa intercessione è in grado anche di dare una certa misura di sollievo ai tormenti dei peccatori destinati al castigo eterno, come testimoniano numerosi Padri e alcune preghiere pubbliche della Chiesa per i defunti (per esempio, la terza delle preghiere in ginocchio della domenica di Pentecoste, attribuite a San Basilio). Ogni perdono di peccati dopo la morte viene unicamente dalla bontà di Dio, con la cooperazione delle preghiere degli uomini, e senza bisogno di alcuna forma di “soddisfazione” o “pagamento”.
La Chiesa cattolica romana era giunta, al tempo del concilio unionista di Lione, a considerare lo stato intermedio dei defunti prima del Giudizio Finale come definitivo e irreformabile. L’inutilità di pregare per i beati già perfetti, o per i dannati senza speranza, giunse a fare ipotizzare un “terzo stadio” di sofferenza limitata e purificatrice, dove anche i peccati già perdonati devono ricevere “soddisfazione”. La tradizione ortodossa vede questa dottrina come qualcosa di essenzialmente estraneo alla fede apostolica, aggravata dall’assenza di riferimenti espliciti, nelle Sacre scritture, a uno stato che non sia quello della beatitudine dei giusti o del tormento dei peccatori.
Il Purgatorio nasce dalla concezione di una punizione ecclesiastica che deve necessariamente corrispondere a ogni peccato, in questa vita o nella prossima, e dalla nozione giuridica di opere supererogatorie (in eccesso rispetto al necessario per la salvezza), una dottrina sviluppatasi nella scolastica del XIII secolo, e confermata da Papa Clemente VI nel 1343. Questa dottrina per l’Ortodossia, non solo non è scritturale, ma addirittura in chiaro contrasto con le parole di Cristo (i “servi inutili” di Lc 17,10 non sembrano depositari di meriti sovrabbondanti). L’ideale di perfezione cristiana, del resto, è per i fedeli ortodossi così alto, che la sua stessa irraggiungibilità esclude a priori che si possa superarne la misura.
Infine, l’Ortodossia mantiene serie riserve sul contorno legalistico che il Cattolicesimo romano ha costruito attorno al Purgatorio, così come sulla pratica delle indulgenze (ovvero il trasferimento dei meriti sovrabbondanti di Cristo e dei Santi per colmare i debiti dei peccatori), che ne è il logico coronamento.

Quarto matrimonio
Il Cattolicesimo romano, accettando durante il Medioevo una visione giuridica del matrimonio come contratto vincolante per la durata della vita degli sposi, giunse a ritenere che la morte di un coniuge estingua il vincolo matrimoniale: si arrivò così a permettere il matrimonio delle persone rimaste vedove senza limite di numero di nozze successive.
Il diritto canonico ortodosso, invece, in stretta conformità con gli antichi canoni e con i dettami dei Padri, proibisce in ogni caso (sia a causa di vedovanza che di scioglimento di matrimoni precedenti) un quarto matrimonio, e anche il permesso di un terzo matrimonio viene accordato con una certa difficoltà. Questa particolare durezza dovrebbe far riflettere di fronte all’accusa di lassismo matrimoniale che viene facilmente attribuita agli ortodossi in un confronto con la prassi cattolico-romana.

Rasatura e tonsura del clero
Mentre nell’Alto Medioevo la Chiesa cattolica romana impose gradualmente il costume del taglio della barba al proprio clero, nel mondo ortodosso si è mantenuto il costume di lasciare crescere barba e capelli, seguito in particolare dai monaci. Benché sia evidentemente un particolare esteriore ed estetico, seppure di origine apostolica, questo aspetto del monachesimo e del clero ortodosso costituisce un istintivo richiamo all’immagine di Cristo e degli apostoli.

Ricezione dei convertiti
La Chiesa cattolica romana, per quanto riguarda il conferimento di sacramenti e di Ordini sacri al di fuori della sua comunione, ha aderito strettamente alla dottrina agostiniana dei sacramenti. Questa dottrina vuole che un atto sacramentale conferito al di fuori dei limiti visibili della Chiesa (anche la stessa consacrazione di un vescovo), rimanga valido, per quanto illecito (ovvero giuridicamente irregolare), e al momento della riconciliazione con la Chiesa debba essere riconosciuto come tale. La sola condizione è che venga seguito secondo i dettami di un rito di provenienza apostolica, con l’intenzione di fare “ciò che fa la Chiesa”. Differenze sostanziali di rito e di intenzione hanno portato Roma a negare la validità sacramentale di sacramenti e ordini delle Chiese nate in seguito alla riforma, soprattutto quella anglicana.
L’Ortodossia, d’altro canto, non si è mai sentita vincolata a questa visione legalistica degli ordini e dei sacramenti: essa riconosce la presenza della grazia sacramentale al suo interno, in quanto corrispondente con la pienezza della fede: ciò non significa, come alcuni hanno potuto pensare, che la Chiesa ortodossa presuma di negare la presenza della grazia al di fuori dei suoi confini visibili; soltanto, essa non si pronuncia a riguardo.
Se un convertito proveniente da un’altra comunità cristiana desidera entrare nella Chiesa ortodossa, questa si sente libera di accettarlo reiterando i sacramenti in precedenza ricevuti dal convertito (posizione di acrivìa, o severità), oppure “sanando” sacramenti ed eventuali Ordini sacri come se questi fossero stati ricevuti all’interno dell’Ortodossia (posizione di economia, o dispensazione). Quale che sia la forma adottata, la Chiesa Ortodossa ritiene comunque che la pienezza di questi sacramenti inizi a decorrere soltanto dal momento della ricezione nell’Ortodossia.
I cattolici romani, abituati a ricevere i convertiti secondo “categorie” ben definite (coloro che hanno ricevuto un battesimo “valido”, coloro di cui sono “validi” anche gli Ordini, e così via) si sentono spesso disorientati, e talvolta offesi, quando vedono che le singole Chiese ortodosse (che talvolta hanno ordinamenti differenti, alcuni più severi, altri più “economici”) ricevono convertiti, magari provenienti dalla stessa Chiesa di partenza, in modi differenti: chi viene “ribattezzato”, chi “ricresimato”, chi “riordinato”, chi accolto mediante una professione di fede o una rinuncia alle eresie…
La posizione ortodossa è probabilmente meno “chiara”, ma la lezione da imparare è che la forma della ricezione di un convertito è di importanza secondaria rispetto al suo accoglimento nella pienezza della fede ortodossa.

Riunione dei cristiani
La Chiesa di Roma vede nella riunione visibile sotto la giurisdizione universale del successore di Pietro la condizione indispensabile per il recupero della pienezza di vita ecclesiale. Nei confronti delle chiese orientali, essa è disposta ad accettare che queste mantengano il loro stato dogmaticamente “sottosviluppato”, a condizione della loro sottomissione alla sede romana. Questa posizione giunge di fatto a sorvolare su notevoli differenze di fede: la posizione ambigua nei confronti del filioque (q.v.), contemporaneamente accettato o respinto a seconda del “rito”, ne è una prova.
Da questo si capisce come mai il magistero cattolico romano consideri tollerabile, e addirittura incoraggiabile, un certo grado di comunicazione nelle cose sacre (partecipazione dei fedeli di una Chiesa ai sacramenti dell’altra), anche se non si sia giunti a una riunificazione su temi centrali della fede.
L’Ortodossia è di tutt’altro avviso. Riconoscendo la propria fede come l’immutata continuità della fede apostolica, essa richiama le altre confessioni cristiane, inclusa quella cattolica romana, al recupero della pienezza delle proprie radici cristiane. Di fronte a loro si pone, in tutta umiltà, come custode di una verità che ha saputo mantenere inalterata nei secoli, per la grazia dello Spirito Santo, e non certamente per proprio merito. Una unità visibile proclamata con un atto di sottomissione superficiale, dettato da necessità del momento, e senza un totale accordo di espressione di fede, non provocherebbe altro che maggiori lacerazioni e ostilità (come dimostrato dai fallimenti dei concili unionisti medioevali di Lione e di Ferrara-Firenze).
Fino al momento di un accordo nell’integrità della fede apostolica, l’Ortodossia ritiene che il ricorso generalizzato alla communicatio in sacris non sia altro che una profanazione, che strumentalizza la santità dei sacramenti per l’ottenimento di un fine “politico” contingente.

Roma antica e moderna
Le particolarità del sistema statale dell’antico Impero romano sembrano avere lasciato sull’attuale Chiesa di Roma una traccia ben più che folcloristica.
Nella Roma pagana, lo Stato aveva un’enorme significato nella vita e psicologia dei cittadini, la virtù del patriottismo era la principale, la sottomissione alla disciplina dello stato era assoluta, e la “pax romana” era l’ideale da esportare a tutti i popoli; era addirittura impensabile, in tale contesto, di sottrarsi alla sovranità romana.
Lo sforzo per la creazione di un centro unico e sovranazionale portò nell’Occidente cristiano allo sviluppo di una mentalità prevalentemente giuridica. Di converso, lo scarso interesse che gli antichi romani avevano per le questioni di verità dogmatica si riflette nella relativa indifferenza dell’Occidente per i dibattiti teologici che per i primi secoli animarono l’Oriente.
Tale mentalità, che esercitò comunque un ruolo complementare a quella dell’Oriente cristiano nel primo millennio, si sarebbe fatta in seguito più pesante per la persistenza di ruoli di assolutismo monarchico nella Sede romana.

Rosario
La coroncina di grani utilizzata come supporto per la preghiera è presente sia tra i cattolici che gli ortodossi, ma con grandi differenze tra gli uni e gli altri. Queste differenze riguardano più la modalità della preghiera associata alla coroncina che non l’oggetto stesso.
Il rosario ortodosso (che sarebbe forse tecnicamente più appropriato chiamare “corda da preghiera”) non ha una lunghezza fissa (i modelli più comuni hanno 33, 50 o 100 “grani”), è generalmente fatto di lana annodata, in rari casi di cuoio (non facendo rumore, è adatto per la preghiera mentale e silenziosa), e non viene usato in forme di preghiera pubblica.
La tradizione del rosario nel cattolicesimo romano associa la coroncina a una forma di concentrazione su immagini della vita di Cristo e di Maria. Come avviene in molti metodi di meditazione (q.v.) cristiani occidentali, con questo approccio si incoraggia attivamente l’uso dell’immaginazione, che i Padri indicavano come una pericolosa fonte di errori e inganni: le distrazioni e i pensieri vaganti vengono facilmente camuffati dalla nostra immaginazione sotto la veste di “meditazioni” sugli eventi della storia sacra, così come se li raffigura la persona che prega. I Santi Padri insegnano, piuttosto, a essere sempre cauti con l’immaginazione, a cercare di controllarla, e non di svilupparla.
La corda da preghiera ortodossa è differente dal rosario, sia nella formulazione delle preghiere (è fondamentalmente associata alla cosiddetta “preghiera del cuore”, o preghiera di Gesù, che è una variante della preghiera del pubblicano nel Vangelo di San Luca: “Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi misericordia di me peccatore”), sia nel suo proposito, che è quello di aiutare la persona che prega a focalizzarsi più attentamente sulle parole della sua preghiera (attraverso il supporto fisico del gesto della mano che fa scorrere i nodi), e a trattenere i suoi pensieri dalle distrazioni.

Sacramenti di iniziazione
Nella Chiesa ortodossa, i sacramenti dell’iniziazione cristiana vengono amministrati come nella Chiesa dei primi secoli: battesimo, cresima ed eucaristia vengono conferiti in quest’ordine, e tutti assieme, poiché chiunque entra a far parte della Chiesa ha diritto di riceverne appieno tutti i privilegi.
Il Cattolicesimo romano, riservando il conferimento della cresima ai soli vescovi, sconvolse l’ordine dei sacramenti di iniziazione, facendo della cresima un “rito di passaggio” della tarda infanzia o dell’adolescenza (residui dell’antico uso dei sacramenti congiunti sono comunque rimasti nelle unzioni battesimali), e situando la prima comunione in un’età di uso della ragione, abbinata alla confessione dei peccati.
L’Ortodossia non può che deplorare questo sistema di mutilazione della vita cristiana. Il sistema “latino” priva i bambini appena battezzati della loro qualifica di membri della Chiesa a tutti gli effetti, subordina la grazia di Dio data nei sacramenti a una facoltà di “capire” razionalmente la loro efficacia, e riserva arbitrariamente la pienezza della vita cristiana a un’età in cui la prima formazione alla fede è già da tempo superata, e lo sviluppo personale è più esposto a traumi e conflitti.

Saluto di pace
Nella nuova messa postconciliare, i fedeli cattolici romani vengono abitualmente invitati dal celebrante a scambiarsi un segno di pace. Nel rito eucaristico (Liturgie di San Giovanni Crisostomo e di San Basilio) comunemente usato dagli ortodossi, così come nell’antica messa tridentina, il saluto di pace viene scambiato solo tra coloro che servono all’altare. Inoltre, il saluto di pace nel rito eucaristico ortodosso è situato subito prima della recitazione del Credo (preceduto dall’annuncio “amiamoci gli uni gli altri, affinché in unità di spirito possiamo professare la nostra fede”). Nel rito latino, antico e moderno, il saluto si trova invece dopo il Padre Nostro e prima della comunione.
L’Ortodossia mantiene di preferenza il costume del saluto di pace riservato ai celebranti, perché questo gesto è un segno di piena comunione, e in senso stretto non andrebbe scambiato con i non ortodossi. Per gli ortodossi l’odierno uso cattolico romano, generalizzato a tutti i partecipanti alla messa, ha finito per indebolire il senso di un segno di comunione tra i fedeli.

Scioglimento e annullamento del matrimonio
Nei casi in cui la Chiesa ortodossa permette le seconde nozze, essa considera il legame matrimoniale precedente come sciolto, sulla base del potere di sciogliere e legare dato da Cristo alla sua Chiesa.
La Chiesa romana, d’altro canto, insistendo sull’indissolubilità del vincolo matrimoniale, ritiene che la Chiesa non abbia il potere di scioglierlo, e si trova così costretta ad annullarlo (o per meglio dire, a dichiarare che il matrimonio non ha mai in realtà avuto effetto), nei casi in cui un legame affettivo tra i coniugi ha di fatto cessato di esistere.
Per giungere a sostenere che un matrimonio non ha mai realmente avuto luogo, laddove manchino dati di evidenza certa, la teologia romana deve per lo più fare ricorso ai cosiddetti vizi del consenso (riserve mentali al momento della celebrazione del matrimonio), che prevengono l’effettiva realizzazione del legame matrimoniale, o ad altri concetti di difficile valutazione, quali l’immaturità emotiva al consenso.
l’Ortodossia ritiene il ricorso ai vizi del consenso come un espediente privo di qualsiasi solidità giuridica (perché una riserva mentale attiene quasi esclusivamente alla sfera dell’intenzione, che è una delle qualità umane più difficili, se non impossibili, da dimostrare), un tentativo di coprire un divorzio senza chiamarlo con questo nome. Realisticamente, il ricorso all’immaturità emotiva può essere visto come un sentiero spalancato per annullare in pratica qualsiasi matrimonio tra coniugi giovani.
Il concetto stesso della possibile nullità del matrimonio rende impossibile essere sicuri che una qualsiasi coppia cattolica romana abbia avuto un matrimonio sacramentale, o sapere se in un rito nuziale cattolico romano venga davvero creato un vincolo matrimoniale valido.
Pertanto, l’idea dell’annullamento è vista dagli ortodossi come qualcosa di più di una destrezza di mano con cui il diritto canonico cerca di coniugare un approccio pastorale con un rigore di principi (cosa che in sé sarebbe accettabile all’Ortodossia): il vero problema è che il concetto di nullità mina alle radici la teologia sacramentale.

Scolastica
Il sistema teologico della scolastica, originatosi nel Medioevo latino e rimasto tuttora il motivo conduttore della speculazione teologica cattolico-romana, mira soprattutto a formulare le ragioni della fede cristiana di fronte a qualsiasi obiezione o interrogativo.
Una delle obiezioni metodologiche mosse dagli ortodossi è che un sistema che pretenda di dare tutte le risposte scivola presto nel razionalismo, e la dimostrabilità della verità si sostituisce come criterio alla verità stessa.

Sedi apostoliche
Il “ministero petrino” del Cattolicesimo romano, e la stessa definizione di Roma come “Sede Apostolica”, si fondano sulla successione dei Papi di Roma sulla sede dell’Apostolo Pietro.
Occorre forse prestare maggiore attenzione alla distinzione tra apostoli e vescovi: anche se nella comprensione ortodossa, così come in quella cattolica romana, non c’è dubbio che i vescovi siano i successori degli apostoli, la teologia ortodossa offre una distinzione più netta dei due ruoli. Gli apostoli, inviati da Cristo ad annunciare il Vangelo a tutte le nazioni, avevano un ruolo missionario (non a caso la Chiesa ortodossa definisce i Santi missionari ed evangelizzatori di intere nazioni come “uguali agli apostoli”): i vescovi, invece, assegnati a sedi stabili, avevano un ruolo residenziale. Solo uno degli apostoli è considerato vescovo a tutti gli effetti: si tratta di Giacomo, che incidentalmente fu l’unico degli apostoli a non andare in missione, rimanendo a custodire la comunità di Gerusalemme. Se gli apostoli fondatori di sedi storiche sono messi in cima alle tavole della successione apostolica, lo sono solo in qualità di iniziatori di particolari linee episcopali, e non perché certi privilegi “apostolici” devono essere tramandati ai vescovi di tali sedi. San Pietro, per esempio, è in cima alle liste di successione apostolica di due sedi: Antiochia e Roma.
Nella teologia cattolica romana (per comprensibili motivi, dovuti alla ricerca di una continuità di privilegi apostolici della sede romana) la distinzione tra apostoli e vescovi è più sfumata.

Segno della croce
Uno dei primi comportamenti che differenziano l’espressione devozionale di ortodossi e cattolici è il modo di farsi il segno della croce. Il cattolico di rito latino si segna tenendo la palma della mano aperta, e toccando la fronte, il petto (solitamente all’altezza del cuore), e le spalle, prima la sinistra e poi la destra. L’ortodosso si segna unendo pollice, indice e medio e ripiegando l’anulare e l’indice sul palmo, e toccando la fronte, il ventre (all’altezza dell’ombelico, o della cintola), e le spalle, prima la destra e poi la sinistra. Nell’antico rito russo, il pollice viene unito alle dita ripiegate anziché alle dita estese.
Il modo ortodosso di segnarsi è carico di un ricco simbolismo. Questo viene spiegato talora in modi differenti, ma genericamente si attribuisce all’unione delle tre dita il senso di una professione di fede trinitaria (tre persone in un unico Dio), e alle altre due dita un significato cristologico (due nature nella persona di Cristo). L’estensione del segno della croce al ventre è immagine di centralità e ricorda la nascita verginale di Gesù Cristo. Il segnarsi dalla spalla destra alla sinistra richiama la seconda venuta di Cristo dalla destra del Padre, o il predominio della luce (tradizionalmente associata al lato destro) sulle tenebre.
Il segno della croce “latino”, più semplificato, venne considerato fin dal suo apparire una modifica del costume apostolico. Ancora per un certo tempo dopo lo scisma, la stessa sede romana continuò a deprecare la pratica di segnarsi a mano aperta, e da sinistra a destra.
Chi ha modo di osservare i fedeli cattolici e ortodossi durante le funzioni di culto, noterà che questi ultimi impiegano il segno della croce con molta più frequenza e spontaneità dei primi, talvolta segnandosi più volte di fila, o accompagnando il segno della croce con inchini e prosternazioni. Pur esistendo complesse tradizioni monastiche sull’uso appropriato del segno della croce in varie circostanze, di fatto, esiste nel culto ortodosso una libertà molto più ampia nell’uso del segno della croce, e può capitare che fedeli diversi si segnino in momenti diversi.

Senso del mistero
L’Ortodossia e il Cattolicesimo romano hanno attitudini piuttosto differenti riguardo ai gesti sacri. Nella celebrazione dei misteri (“mistero” è la parola di origine greca con la quale si designano abitualmente i sacramenti), questa diversità è abbastanza evidente nel momento solenne della consacrazione eucaristica.
Mentre il mondo latino, sempre attento alla definizione e all’esposizione dell’ineffabile, accompagna la consacrazione delle Sacre specie con gesti di ostentazione (elevazione dell’ostia, suono di campane), la tradizione ortodossa preferisce l’adorazione silenziosa, quasi rifuggendo come una tentazione il bisogno di definire il mistero in termini umani.
La bramosia di etichettare il mistero, che lo espone a ogni sorta di razionalizzazione umana, risulta particolarmente sgradita alla coscienza ortodossa.

Sviluppo dogmatico
La Chiesa ortodossa pensa che nella rivelazione non esista progresso: i Santi Apostoli avrebbero ricevuto tutta la rivelazione, e tutta la comprensione della rivelazione, nella discesa dello Spirito Santo a Pentecoste. Pertanto, i dogmi emanati per combattere gli eretici non rappresentano per l’Ortodossia uno sviluppo nella rivelazione, né nella comprensione della rivelazione, ma solo l’espressione di una mediazione culturale funzionale alla lotta all’eresia (ripetizioni di ciò che è sempre stato creduto, e che è stato messo in questione, sfidato o deformato dalla mentalità di questo mondo).
La Chiesa cattolica romana, invece, pensa che la rivelazione possa venire compresa in una crescita temporale, e che pertanto possano darsi dogmi che non solo esprimono una correzione di idee eretiche, ma che rappresentano una maggiore comprensione del deposito rivelato (ne sono un esempio i dogmi dell’Immacolata concezione e dell’Infallibilità papale).
Se l’Ortodossia pensa che vi possa essere crescita nella Chiesa, questa deve essere crescita nella santità, e non nella verità.
È opportuno ricordare che l’idea stessa di sviluppo dogmatico è tardiva, ed è stata introdotta ufficialmente solo nel diciannovesimo secolo, con il Saggio sullo sviluppo della dottrina cristiana del Cardinale John Henry Newman: un’opera che paragona la dottrina della chiesa a un albero, che da un seme iniziale cresce attraverso stadi di perfezionamento successivo fino alla piena maturità. In tal modo, anche i nuovi dogmi ottocenteschi potrebbero essere visti come “semi” da sempre presenti nella Tradizione cristiana, in attesa del tempo di germogliare. L’ovvia obiezione a una simile concezione della dottrina cristiana è che in tal modo si aprono le porte pressoché a qualsiasi innovazione dottrinale, per quanto dissonante dalla fede dei padri. L’impressione che ne deriva è che lo “sviluppo dogmatico” sia un tentativo di giustificare le nuove dottrine del cattolicesimo romano nell’incapacità di mostrare una loro continuità dalla fede apostolica.

Teologia
La comprensione cattolica romana della teologia è che si tratti di una vera scienza, che usa come principi le verità sicure e fondate della Rivelazione divina, e trae da queste nuova conoscenza (conclusioni teologiche) con un metodo strettamente scientifico.
La comprensione ortodossa della teologia è che questa comprenda la partecipazione attiva e cosciente nella percezione delle realtà del mondo divino: in altre parole, la realizzazione di una conoscenza spirituale. Essere un teologo nel senso pieno, pertanto, presuppone l’ottenimento di uno stato di tranquillità (esichìa) e mancanza di passioni (apatìa), che accompagnano la preghiera pura e non distratta, e pertanto richiede doni conferiti a pochissime persone.
La tradizione ortodossa definisce ufficialmente “teologi” soltanto tre santi: Giovanni l’Apostolo ed Evangelista, Gregorio di Nazianzo, e Simeone il Nuovo Teologo.

Titoli papali
Dal rifiuto delle definizioni del Concilio Vaticano I sul primato papale, si comprende come l’Ortodossia non si senta di accettare alcun tipo di definizione che voglia indicare nel papa di Roma un capo supremo della Chiesa.
Già il termine “pontefice” (un prestito dal paganesimo, sul quale Tertulliano ironizzava) è visto come una forzatura, mentre l’espressione Vicario di Cristo (un termine originariamente impiegato dai re carolingi, e in seguito avocato ai papi), è vista come assolutamente inconcepibile (a ben vedere, fa pensare a una “vacanza”, o carenza, dell’autorità di Cristo sulla Chiesa, ed è un vero e proprio insulto nei confronti delle parole di Cristo sulla sua presenza costante nella Chiesa).

Transustanziazione
Pur avendo sempre insistito sulla realtà della trasformazione eucaristica del pane e del vino nel Corpo e nel Sangue di Cristo, l’Ortodossia non ha mai voluto spiegare la maniera del cambiamento. Nella preghiera eucaristica, viene usato il verbo greco metabàllo (un termine che si traduce, in modo neutrale, con ‘cambiare’ o ‘trasformare’).
La scolastica romana medioevale, adottando la filosofia aristotelica e la sua distinzione tra ‘sostanza’ (ciò che fa essere una cosa) e ‘accidenti’ (le modalità di manifestazione della cosa stessa), introdusse e rese vincolante il termine di transustanziazione (ovvero, cambiamento della sostanza del pane e del vino con quella del Corpo e Sangue di Cristo, mentre gli accidenti visibili del pane e del vino restano quelli che erano). La terminologia, che anche secondo gli ortodossi è un modo legittimo di spiegazione del mistero eucaristico, costringe comunque all’accettazione della filosofia aristotelica che ne sta alla base.
Benché il termine ‘transustanziazione’ sia usato nella Chiesa ortodossa (per esempio, nel Concilio di Gerusalemme del 1672, e tuttora in catechismi e opere teologiche), il suo uso è sempre subordinato al fatto che esso sia soltanto una delle molte modalità di descrizione del mistero eucaristico.

Uniatismo sugli altari
Se le tristi e complicate vicende dell’uniatismo (che sarebbe troppo lungo elencare qui) rappresentano una pagina buia per ogni tentativo di riconciliazione tra ortodossi e cattolici romani, ci si può chiedere a che pro vengano offerti esempi di santità che sembrano essere un aperto incoraggiamento all’incomprensione.
Tipico esempio è il vescovo uniata Josaphat Kuntsevich, canonizzato da Papa Pio IX il 29 Giugno 1867, ed esaltato da Papa Pio XI nel 1923 nell’enciclica Ecclesiam Dei come ieromartire, esempio di vita santa e aiuto nell’unificazione di tutti i cristiani. Ancora di recente Papa Giovanni Paolo II lo ha definito “Apostolo dell’unità”.
La sua morte “da martire” ebbe luogo a Vitebsk il 12 Novembre 1623, dove si era recato assieme a un gruppo di suoi sostenitori per distruggere le tende dove gli ortodossi tenevano in segreto le loro funzioni. Dopo che uno dei suoi diaconi assalì un prete ortodosso, la folla inferocita si levò contro il vescovo, che guidava personalmente il pogrom, e lo uccise a colpi di sassi e bastoni. Il suo corpo fu chiuso in un sacco e gettato nel fiume Diva.
Poco prima della sua morte, il vescovo Kuntsevich aveva ordinato la riesumazione di ortodossi morti e ne aveva fatto dare ai cani i resti; in tutta la sua diocesi di Polotsky, a Mogilyov e Orsha, aveva saccheggiato e terrorizzato gli ortodossi, chiudendo e bruciando le loro chiese, vantandosi di atti quali annegamenti, decapitazioni e profanazioni di luoghi sacri.
Numerose voci si levarono da parte delle stesse autorità: tra i documenti spicca la lettera datata 12 Marzo 1622, un anno e mezzo prima della sua morte, inviatagli dal cattolico (latino) Leo Sapiega, cancelliere del Granducato di Lituania, rappresentante del Re di Polonia: una durissima condanna della sua oppressione del popolo ortodosso.
Per quanto anche la Chiesa ortodossa abbia canonizzato dei santi che nella loro vita avevano scelto deliberatamente di lasciare la comunione romana (tra di loro, Massimo il Greco e Alexis Toth), nessuno di questi si può avvicinare alla efferata crudeltà del vescovo Kuntsevich: anzi, almeno nel caso di Padre Alexis Toth, la conversione all’Ortodossia fu largamente provocata dall’atteggiamento vessatorio delle autorità romane.

Unicità della Liturgia
In conformità alla prassi di tutta la cristianità del primo millennio, le chiese ortodosse hanno un singolo altare eucaristico, e vi si celebra la Divina Liturgia non più di una volta al giorno, sempre alla presenza di altri fedeli oltre al sacerdote (è esclusa a priori qualsiasi celebrazione strettamente solitaria). Questo costume è coerente con la concezione che i primi cristiani avevano della Chiesa: i laici e il clero radunati attorno al proprio vescovo, e formanti un unico corpo nel mistero eucaristico. Questa unicità della Chiesa si combina perfettamente con l’unicità della Liturgia.
In Occidente, nel movimento monastico cluniacense (XI secolo), si iniziò a separare atto liturgico e comunità dei credenti, nella convinzione che il sacrificio eucaristico potesse essere di maggiore aiuto se celebrato con più frequenza, a suffragio di quante più persone possibile (particolarmente i defunti). Iniziarono così i fenomeni degli altari secondari, eretti in navate e cappelle laterali delle chiese, perché un maggiore numero di sacerdoti potesse celebrare l’eucaristia. Ebbero altresì inizio le cosiddette “Messe private”, celebrate dal sacerdote senza concorso di fedeli, a volte come esercizio devozionale, talora come “Messe di suffragio”.
La tradizione ortodossa ritiene che questa concezione “quantitativa” dell’eucaristia ne abbia svilito e snaturato lo spirito; nonostante l’Ortodossia apprezzi i tentativi di ritornare all’antica tradizione compiuti dal movimento liturgico cattolico di questo secolo, essa continua a vedere nei recenti insegnamenti cattolico-romani in materia la medesima impostazione.

Unità e uniformità
Una vera unità nella fede può accomodare numerose forme diverse di esprimere detta fede: su questo punto generale, Ortodossia e Cattolicesimo romano coincidono.
Esistono numerose difformità nel culto ortodosso, derivate per lo più da usi locali: queste comprendono, per esempio, l’inclusione o l’omissione di certe formule di preghiera all’interno di una data funzione (o l’inversione dell’ordine di alcune preghiere), diversità di titoli clericali e gerarchici, cambiamenti nel posizionamento di icone o di arredi sacri all’interno della chiesa, differenze di pratiche devozionali e di forme di digiuno o ascesi.
Non si trova mai, tuttavia, un bi-polarismo simile a quello della Chiesa Cattolica Romana nel suo tentativo di armonizzare riti orientali e occidentali: un esempio è la ricezione della comunione da parte dei bambini piccoli, vista come “svantaggio” tra i cattolici occidentali e come “vantaggio” presso i cattolici orientali.

Unzione degli infermi
Il sacramento dell’Unzione degli infermi, basato su Gc 5, 14-15, e sulla pratica della Chiesa nei tempi apostolici, fu ristretto, nel mondo cattolico romano dal XII al XX secolo, ai casi di morte imminente, prendendo il nome di “estrema unzione”, e divenendo una sorta di sacramento dei morenti.
La Chiesa ortodossa, mantenendo l’amministrazione di questo sacramento a tutti gli infermi, di corpo come di spirito, non lo ha mai riservato ai soli morenti. Pur amministrando l’Olio santo anche ai malati terminali, essa non lo considera una parte necessaria dei riti per i morenti (che includono la confessione, il viatico e le preghiere per la dipartita dell’anima).

Validità dei sacramenti
Nella concezione cattolica romana, si presume che i Misteri vengano compiuti dal clero, lecitamente o illecitamente, ma in un modo “valido”; gli ortodossi affermano invece che i Misteri vengono serviti dal clero, e di conseguenza la questione della validità perde di senso al di fuori del contesto del servizio ministeriale nella pienezza della Chiesa apostolica.
Queste diverse concezioni hanno portato a equivoci, con accuse spesso ingiustificate alla Chiesa ortodossa, sulla questione della ricezione dei convertiti (q.v.)
Esisteva una direttiva ufficiale e legittima (per quanto non proprio universale e piuttosto tardiva), descritta nel manuali a uso del clero, per ricevere i convertiti attraverso la rinuncia alle eresie e la confessione, e senza la ripetizione dei riti del Battesimo e della Cresima amministrati in modo formalmente adeguato in chiese non ortodosse. Questa pratica fu seguita soprattutto nella Chiesa russa, non senza un influsso teologico latino, e con lo scopo principale di favorire il ritorno all’Ortodossia degli uniati.
In circostanze moderne, questo grado di economia (che è un modo misericordioso di ricevere i convertiti), può essere facilmente confuso con un effettivo riconoscimento di sacramenti e misteri al di fuori della Chiesa Ortodossa; può facilmente lasciar credere che gli ortodossi sottoscrivano concetti come quello delle “Chiese sorelle” (q.v.), o quello della “validità automatica” dei riti conferiti al di fuori della Chiesa.
La grazia degli atti sacramentali compiuti al di fuori della Chiesa non può essere mai riconosciuta per sé (tant’è vero che gli ortodossi sono comunque tenuti, in ogni caso, a non accostarsi ai sacramenti delle chiese non ortodosse, e che è unicamente nel caso di ricezioni di convertiti che si pone la questione della ripetizione, o non ripetizione, di sacramenti ricevuti in precedenza). L’Ortodossia non specula sulla eventuale presenza della grazia al di fuori dei limiti visibili della Chiesa: l’unica grazia che può essere decisamente, e ufficialmente, riconosciuta come presente e attiva nella vita dei cristiani non ortodossi (e peraltro anche dei non cristiani), è quella grazia che li conduce alla pienezza della Chiesa.

Venerazione delle icone
Mentre non è inconsueto vedere cattolici romani pregare per lungo tempo di fronte a immagini sacre, si può facilmente notare come i fedeli ortodossi assumano un atteggiamento di maggiore dialogo e interazione con le icone: nella tradizione ortodossa è d’uso, entrando in una chiesa o in una casa, segnarsi di fronte alle icone, baciandole e accendendo di fronte a loro candele e lampade.
In stretta conformità con i decreti del settimo Concilio Ecumenico (Nicea, 787), il cui Sinodico fa parte integrante del culto ortodosso, la venerazione delle immagini sacre è parte integrante della vita di fede, pubblica e privata, dei cristiani ortodossi, che nella loro iconografia hanno un segno di straordinaria continuità con la fede apostolica.
Questo forte senso di compenetrazione con le immagini sacre è andato sempre più affievolendosi in Occidente, con una progressiva decadenza verso un’arte naturalistica indulgente al razionalismo e al sentimentalismo, e all’uso dell’immagine come “supporto meditativo”.
Gli ortodossi, di fronte agli innumerevoli “sviluppi” dell’arte religiosa cattolico-romana, che in gran parte hanno contribuito a neutralizzare la sinfonia tra arte sacra e devozione cristiana, non possono fare altro che vedervi i segni di un autentico allontanamento dalla verità e dalla pienezza di fede.

Vetrate istoriate
Per quanto si possa dire che gli ortodossi non badino a spese per decorare con ricchezza e solennità l’interno delle loro chiese, non si è sviluppata tra loro l’arte delle vetrate colorate che ha reso famose le grandi cattedrali gotiche del medioevo (e che da queste è passata anche al protestantesimo). Ciò ha avuto ragioni storiche: la tipica architettura bizantina e slava non ha mai permesso un grande spazio per le finestre, e sovraccaricare di colori le poche aperture esistenti avrebbe sottratto illuminazione all’interno. Tuttavia, anche con le più ampie aperture permesse dalle moderne tecnologie, si è preferito comunque mantenere un colore uniforme e soffuso per le vetrate, senza decorazioni particolari (un tipico caso è la cattedrale di San Demetrio a Salonicco, in Grecia). Certamente, non si può parlare di avversione all’iconografia (dopo tutto, le icone sono definite “finestre” sul cielo), ma bisogna piuttosto considerare questa apparente carenza in relazione con le altre immagini all’interno delle chiese. Nelle cattedrali gotiche, le vetrate colorate arricchivano quello che sarebbe altrimenti stato un ambiente spartano; in una chiesa ortodossa, esse creerebbero probabilmente contrasto e confusione con l’iconografia parietale (affreschi e mosaici), limitandone l’illuminazione e proiettandovi sopra fasci di luce eterogenea e innaturale. Inoltre, diventerebbero un falso surrogato delle icone interne. La finestra ideale di una chiesa ortodossa deve donare un senso di luce celeste e traslucida (per questo erano sapientemente usati nell’antichità l’onice e l’alabastro), che esalta il valore dell’iconografia interna.

CONCLUSIONE

È stato necessario insistere sugli elementi di differenza, sia per far comprendere come non bastino vaghi desideri di ecumenismo per proclamare che “nulla ormai ci divide”, sia perché talvolta è proprio imparando a conoscere ciò che ci differenzia dagli altri (e le loro ragioni per essere quelli che sono), che si impara ad apprezzarne i diritti e a rispettarli nelle loro convinzioni. Talvolta si impara a conoscere meglio anche se stessi, la propria Chiesa e le proprie tradizioni…
Non abbiamo preteso di essere esaustivi: esistono ancora molte altre differenze che un attento osservatore potrà notare, ma confidiamo che la nostra panoramica sia sufficiente come inizio.
Ci auguriamo che queste nostre osservazioni possano stimolare un ulteriore desiderio di conoscenza reciproca tra cattolici romani e ortodossi, una più profonda riverenza per la Verità, un senso di lealtà e di rispetto nel confronto.

CREDITI E RINGRAZIAMENTI

Questo testo è nato da una serie di discussioni e dibattiti avvenuti in seno alla comunità ortodossa torinese, ed è stato in diverse occasioni analizzato e riveduto a cura di sacerdoti ortodossi in varie parti d’Italia. Fino alla sua stesura definitiva nel 1997, il testo si è arricchito con molte idee espresse nel corso di dibattiti in Internet sull’Ortodossia e il Cattolicesimo romano.
A causa della stratificazione successiva di dati e argomenti, ci è impossibile assegnare a ciascuno un credito specifico per le idee espresse.
Per lo stesso motivo, ci risulta gravoso aggiungere una bibliografia di riferimento, che sarebbe forse lunga quasi quanto il testo stesso.
A tutti quanti hanno contribuito alla stesura di queste pagine va comunque il nostro ringraziamento.
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