24grammata.com / ιταλικά / αρχαιότητα
free ebooks on Classical Literature and History click here
About Aristotle on 24grammata.com here
Ad un’etica così aristocratica – com’era quella di Aristotele che abbiamo appena accennato nel precedente
capitolo- doveva seguire, naturalmente (o la conseguenza sarebbe stata opposta?), una filosofia politica
strettamente aristocratica. Non si poteva aspettare che il precettore di un imperatore e il marito di una
principessa fosse troppo affezionato al popolo minuto od anche alla borghesia commerciante: la nostra
filosofia è nomalmente sempre basata sulla nostra condizione.
Per stabilire quale fosse la miglior forma di governo concretamente possibile Aristotele esaminò
attentamente pregi e difetti delle tre forme tipiche di governo (monarchia, aristocrazia, democrazia), e
comprese che tutte, teoricamente buone, presentavano seri inconvenienti.
Per Aristotele, la forma di governo ideale è una via di mezzo tra aristocrazia e democrazia: un governo
«aristocratico» nel senso che solo i «migliori » dovrebbero decidere le sorti della comunità. Ma anche
“democratico”: sia perché la maggioranza dovrebbe far sentire ai governanti quali sono le esigenze cui
provvedere sia perché la strada per arrivare alle più alte cariche dovrebbe essere aperta a tutti i cittadini
davvero meritevoli.
Aristotele era inoltre onestamente un conservatore, a causa della confusione e del disastro prodotto dalla
democrazia ateniese. Come ogni tipica persona dotta, egli bramava l’ordine, la sicurezza e la pace; sentiva
che non era quello il momento opportuno a stravaganze politiche. Il radicalismo è un lusso prodotto dal
senso di stabilità; possiamo osare di cambiar le cose soltanto quando le teniamo bene strette in mano. E in
generale, dice Aristotele, «…l’abitudine di cambiar le leggi con leggerezza è un male; e se il vantaggio del
cambio è piccolo, alcuni difetti, sia nella legge come nel legislatore, sarebbe stato meglio sopportarli con
filosofica tolleranza. Il cittadino guadagnerà meno di quel che perderà, abituandosi a disubbidire» (Politica, II,
8).
La forza che ha la legge di assicurare la propria osservanza, e quindi di mantenere la stabilità politica, si basa
ampiamente sulla consuetudine; e «passare con leggerezza da vecchie a nuove leggi è un mezzo sicuro di
indebolire l’intima essenza di ogni e qualsiasi legge» (Politica, V,8).
«Non disprezziamo l’esperienza delle epoche precedenti: certamente, nel trascorrere di innumerevoli anni,
certe cose, se davvero buone, sarebbero già state sperimentate» (Politica, II, 5).
Senza dubbio, queste «certe cose» si riferiscono soprattutto alla repubblica comunista di Platone. Aristotele
combatte il realismo di Platone quanto all’universale, e l’idealismo di Platone in fatto di governo. Egli trova
molti punti oscuri nel quadro dipinto dal maestro. A lui non piace la continuità dei contatti, simile a quella
delle caserme, nella quale Platone condannava a vivere i suoi reggitori filosofi, esprimendosi chiaramente a
questo riguardo. Sebbene Aristotele sia un conservatore, egli valuta l’individuo, la solitudine e la libertà più
dell’influenza sociale e del potere. A lui non importa dar nome di fratello o sorella a tutti i coetanei, né
chiamare padre e madre tutte le persone più anziane; se tutti sono nostri fratelli, non lo è nessuno; e «quanto
è meglio trattare qualcuno da vero cugino, piuttosto che essergli figlio al modo platonico!» (Politica, II, 3).
In uno Stato in cui si abbiano donne e bambini in comune, l’ «amore sarà annacquato… Delle due condizioni
che ispirano maggiormente rispetto e affetto – e cioè che una cosa è vostra e che essa desta un vero affetto in
voi – nessuna può esistere in uno Stato come quello di Platone» (Politica, II, 4).
Forse e esistita, in un passato che si perde nella notte de’ tempi, una specie di società comunista, quando lo
Stato era la sola famiglia, la pastorizia e l’agricoltura le sole forme di vita. Ma «in un tipo di società statale più
suddivisa», in cui la divisione del lavoro in funzioni importanti e ineguali fa aumentare ed emergere le naturali
disuguaglianze umane, il comunismo cede, perchè non offre un incentivo adeguato all’impiego delle
individualità più spiccate. Lo stimolo del guadagno è necessario a sopportare un lavoro pesante e faticoso; e
lo stimolo della proprietà è necessario per dare incentivo all’industria, all’agricoltura, alla sollecitudine del
fare”. “Quando tutti possiedono tutto, nessuno si curerà di qualcosa”. «Ciò che è comune al maggior
numero, non è fatto segno alla benchè minima attenzione. Tutti pensano soprattutto al proprio personale
interesse, difficilmente s’incaricano di quello pubblico» (Politica, II, 3).
Ed «é sempre molto difficile vivere insieme, o aver cose in comune, ma lo è specialmente quando si hanno
proprietà in comune. Aver compagni di viaggio (per non parlare dell’ardua specie di comunismo
matrimoniale), è un esempio calzante: generalmente si perde la strada e si bisticcia per ogni sciocchezza che
s’incontra» (Politica, II, 5).
Nella platonica Utopia «gli uomini ascoltano molto volentieri e sono facilmente indotti a credere chi dice che
in qualche mirabile modo tutti diventeranno amici di tutti, specialmente se udranno qualcuno denunciare i
mali presunti… mali che, si dice, siano colpa della proprietà privata. Tuttavia, questi mali hanno pure un’altra
e ben diversa origine la malvagità della natura umana» (Politica, II, 5 – Si noti che i conservatori sono
pessimisti ed i radicali ottimisti circa la natura umana, la quale probabilmente non è nè così buona, nè così
cattiva come ad essi piace credere. Può, invece, trattarsi non tanto della natura, quanto della prima
educazione e dell’ambiente.).
«La scienza politica non può fare gli uomini, ma deve prenderli come li fa natura» (Politica, I, 10)
E la natura umana, in generale, è più vicina alla bestia che a Dio. Gran parte degli uomini sono ignoranti e
pigri: assoggettate questi individui a qualunque regime, essi cadranno sempre più in basso, e rialzarli con
l’aiuto dello Stato è «come versar acqua in una botte che perde ». Gente simile dev’essere governata in
politica e diretta nel lavoro, col suo consenso, se è possibile, e senza, se è necessario.
«Dalla nascita alcuni recano il marchio della sommissione, altri del comando» (Politica, I, 6).
«Chi può antivedere con la propria intelligenza, è designato da natura a comandare! ma chi può lavorare
soltanto col corpo, è schiavo per natura» (Politica, I, 2 – Forse schiavo è parola troppo aspra per rendere il
concetto di doulos; la parola era soltanto un franco riconoscimento di un fatto brutale, che ai giorni nostri
viene abbellito coi ragionamenti intorno alla dignità del lavoro e alla fratellanza umana. Noi superiamo
facilmente gli antichi nell’arte di costruire belle frasi).
“Lo schiavo è, rispetto al padrone, come il corpo rispetto all’intelletto; e come il corpo deve sottomettersi
all’intelletto, così è meglio per tutti gli inferiori esser governati da un padrone” (Politica, I, 5).
«Lo schiavo è uno strumento che ha vita, lo strumento è uno schiavo senza vita».
Poi il nostro filosofo dal cuore duro, vedendo un barlume delle possibilità che la Rivoluzione industriale ha
aperto alle nostre mani, scrive, acceso per un momento da un’ardente speranza: «Se ogni strumento
eseguirà il suo lavoro, obbedendo o prevedendo la volontà altrui…, se la spola tesserà, o il plettro toccherà la
lira, senza che una mano li guidi, allora i dirigenti non avranno più bisogno di aiuti nè i padroni di schiavi»
(Politica, I, 4).
Questo genere di filosofia stigmatizza il disdegno dei Greci per il lavoro manuale. Il quale, ad Atene, non
aveva raggiunto ancora la complessità di adesso: l’intelligenza che si richiede nell’esecuzione di molti lavori
manuali odierni è a volte maggiore di quella richiesta dal lavoro delle classi medie e umili, e persino un
professore può (in certi momenti) considerare il congegno meccanico di un’automobile come un segreto
divino. Ai tempi di Aristotele, il lavoro manuale era veramente e soltanto eseguito con le mani, ed egli
guardava ad esso, dalle altezze della filosofia, come a cosa appartenente ad uomini privi di intelligenza,
degna soltanto di schiavi e capace soltanto di piegare gli uomini alla schiavitù. Egli crede che il lavoro
manuale offenda e deteriori l’intelligenza; e da tutto ciò Aristotele trae un corollario che gli pare assai
ragionevole soltanto persone alquanto agiate faranno parte del governo (Politica, III, 4; VIII ,8).
«La miglior forma di governo non darà la cittadinanza a meccanici… ». A Tebe vigeva questa legge: non
poteva ottenere nessun ufficio pubblico chi non si fosse ritirato dagli affari dieci anni prima (Politica, III, 5).
Persino i mercanti ed i finanzieri sono classificati da Aristotele tra gli schiavi. «Il commercio al minuto è
contro natura…, esso è un mezzo per cui gli uomini guadagnano uno a scapito dell’altro. Il più odioso di
questo genere di scambi è… l’usura, che trae guadagno dal denaro stesso, e non dall’uso naturale di esso.
Poichè il denaro è destinato ad essere strumento di scambio, e non il padre dell’interesse. Questa usura
(tokos), che fa nascere denaro dal denaro…, è il peggior modo di guadagnare contro natura» (Politica, I, 10. –
Questo punto di vista influenzerà la proibizione medioevale di dare interesse).
Il denaro non deve far razza. D’onde: «la discussione delle teorie finanziarie che non è indegna della filosofia;
ma occuparsi di finanza o di far denaro, è indegno di un uomo libero» (Politica, I, 10. – Aristotele aggiunge
che i filosofi potrebbero aver successo in questi campi di attività, se si dessero la pena di applicarvisi; e cita
con orgoglio l’esempio di Talete, il quale, prevedendo un buon raccolto, assoldò tutti i mietitori della sua
città, e poi, al tempo della mietitura, li cedette ad altri con forte guadagno. In base a questo fatto, Aristotele
conclude che il segreto universale dei ricconi è quello di crearsi un monopolio).
La donna è, rispetto all’uomo, quello che è lo schiavo rispetto al padrone, il lavoro manuale rispetto al lavoro
mentale, il barbaro rispetto al Greco. La donna è un uomo incompleto: essa se ne sta ritta su un gradino più
basso nella scala dello sviluppo (De Gen. Animalium, II, 3; Hist. Animalium, VIII, I; Pol., I, 5. – Cfr. Weininger; e
«La donna sarà l’ultima cosa resa civile dall’uomo» di Meredith (Ordeal of Richard Feverel, pag. I). Tuttavia, in
realtà, l’uomo è stato (o sarà) l’ultima cosa resa civile dalla donna, poichè i grandi agenti civilizzatori – la
famiglia e la ordinata vita economica – sono ambedue creazioni della donna).
Per natura il maschio è superiore e la femmina inferiore; l’uno comanda e l’altra è comandata; e questo
principio si estende, necessariamente, a tutta l’umanità. La donna ha debole volontà, quindi è incapace
d’indipendenza di carattere e di condizione; il meglio per lei è una quieta vita casalinga, la quale, mentre nelle
relazioni esterne l’uomo comanda, la rende suprema signora negli affari domestici. Le donne non debbono
essere molto maschili, come nella repubblica platonica; è piuttosto meglio aumentare le dissomiglianze;
nulla attrae quanto la differenza. Il coraggio dell’uomo e quello della donna non sono gli stessi, come
supponeva Socrate: il coraggio dell’uomo si mostra nel comandare, quello della donna nell’ubbidire… Come
dice il poeta: «Il silenzio è l’orgoglio della donna» (Politica, I, 13).
Aristotele non è certo che questa schiavitù ideale della donna sia preziosa per l’uomo, poichè sovente il
bastone del comando sta nella lingua piuttosto che nel braccio. E come per dare al maschio un vantaggio
indispensabile, egli propone all’uomo di differire il matrimonio fin verso i trentasette anni e di sposare, allora,
una ragazza sulla ventina. Una ragazza di questa età sta generalmente alla pari con un uomo di trenta, ma
può forse cavarsela con un maturo guerriero di trentasette anni. Aristotele è indotto a questi calcoli
matematici intorno al matrimonio considerando che due persone di età così disparate perderanno, press’a
poco nello stesso tempo, le energie generative e la passione sentimentale. «Se l’uomo è ancora capace di
generare figli, mentre la donna non ha più la possibilità di farli nascere, o viceversa, sorgeranno contrasti e
dissensi… Poichè generalmente il tempo utile alla generazione è limitato ai settant’anni per l’uomo e ai
cinquanta per la donna, l’inizio della loro unione deve avvenire proporzionalmente a questi termini. Unioni di
individui troppo giovani non hanno buona influenza sulla creazione dei figli; la prole di tutti gli animali
eccessivamente giovani nasce piccola, male sviluppata e generalmente di sesso femminile».
La salute e più importante dell’amore. Inoltre, «l’unione coniugale in non troppo giovane età induce alla
temperanza; le donne che sposano presto sono inclini ad una condotta leggera, ed anche negli uomini la
costituzione fisica intristisce, se sposano quando non sono ancora completamente sviluppati » (Politica, VII,
I6. E’ chiaro che Aristotele pensa soltanto alla temperanza delle donne; l’effetto morale del ritardo del
matrimonio sugli uomini sembra non lo preoccupi).
Questi problemi non devono essere lasciati in balia dei capricci della gioventù; ma devono esser sottoposti a
controllo e sorveglianza: lo Stato deve determinare l’età minima e massima di ambo i sessi per il matrimonio,
le stagioni più adatte al concepimento e la proporzione con la quale deve aumentare la popolazione. Se la
proporzione naturale di questo aumento è troppo alta, la crudele abitudine dell’infanticidio dovrà esser
sostituita dall’aborto; e «l’aborto si ottenga prima che si manifesti la vita e il senso» (Politica, VII, 16).
Esiste una giusta misura della popolazione per ogni Stato, la quale varia con la posizione geografica e le
risorse di esso. Uno Stato poco popolato non è, come dovrebbe essere, sufficiente a se stesso; mentre, se è
troppo denso di popolazione… diventa nazione e non è più Stato, ne si adatta bene a un governo costituito o
all’unità etnica o politica (Politica, VII, 4).
Non è desiderabile una comunità politica superiore ai 10.000 individui.
Anche l’educazione dev’essere in mano allo Stato. «Ciò che contribuisce maggiormente alla durata delle
costituzioni è l’adeguamento dell’educazione alla forma di governo… Il cittadino dovrebbe esser modellato
secondo la forma di governo sotto cui vive » (Politica, V, 9; VIII, I).
Il controllo diretto dello Stato sulle scuole dovrebbe allontanare gli uomini dal commercio e dall’industria,
per invogliarli maggiormente all’agricoltura; e potremmo insegnar loro, pur conservando la proprietà privata,
a fare un certo uso comune dei loro beni. «Fra buona gente, pur rispettando ciascuno la proprietà altrui,
potrà aver ragione il proverbio che afferma aver gli amici tutte le cose in comune» (Politica, VI, 5; II, 5).
Ma ai giovani cittadini si deve insegnare sopra tutto obbedienza alla legge, altrimenti lo Stato è impossibile.
«Fu detto che chi non ha mai imparato ad obbedire, non potrà mai ben comandare!… Il buon cittadino deve
saper fare ambedue le cose». E soltanto un regime scolastico soggetto allo Stato può conseguire l’unità
sociale in un ambiente etnico eterogeneo; lo Stato è una pluralità che deve costituirsi in comunità ed unità
per mezzo dell’educazione (Politica, III, 4: II, 5).
Insegnate pure alla gioventù i benefici che essa riceve dallo Stato, la non abbastanza apprezzata sicurezza
che deriva dall’organizzazione sociale, la libertà che la legge garantisce. «L’uomo coltivato è il migliore degli
animali, ma, isolato, è il peggiore di tutti; perchè l’ingiustizia è più pericolosa se armata, e l’uomo reca dalla
nascita l’arma dell’intelligenza e ha doti di carattere che può usare per i fini più bassi. Quindi, se non ha doti
morali, è l’animale più selvaggio e corrotto, pieno di avidità e di concupiscenza ». Soltanto il controllo sociale
lo può arricchire di doti morali. Con la parola l’uomo evolse la Società; con la società sviluppò l’intelligenza,
con l’intelligenza l’ordine; e con l’ordine, la civiltà. In uno Stato ordinato, l’individuo ha mille opportunità e
l’adito aperto ad uno sviluppo, che non gli sarebbe mai possibile nella solitudine. «Per viver solo, – dunque –
l’uomo dev’essere o una bestia o un dio» (Politica, I, 2 – « Oppure » aggiunge Nietzsche, che prende quasi
tutta la sua filosofia politica da Aristotele «l’uomo deve essere l’una e l’altro – cioè un filosofo».).
Perciò la rivoluzione non è quasi mai un bene; può migliorare qualche cosa, ma a costo di molti guai, primo
de’ quali il turbamento, e forse la dissoluzione, dell’ordine e della struttura sociale, da cui dipende ogni suo
bene politico. Le dirette conseguenze di innovazioni rivoluzionarie possono essere calcolabili e benefiche,
ma quelle indirette sono generalmente incalcolabili, e non di rado disastrose. «Chi prende in considerazione
soltanto pochi punti di vista, trova facile formulare un giudizio»; una persona raccoglierà presto i suoi
giudizi, se ha poco da raccogliere. «I giovani hanno facili delusioni, perchè sono facili a sperare». Il dover
sopprimere abitudini inveterate è causa della rovina dei nuovi governi, poichè le vecchie consuetudini
persistono nei popoli; i caratteri non si cambiano facilmente, come le leggi. Se una costituzione ha carattere
permanente, tutti i partiti sociali devono desiderare che venga conservata.
Perciò, un uomo di governo che voglia evitare la rivoluzione dovrà prevenire gli estremi della povertà e della
ricchezza, – «condizione che spessissimo è il risultato della guerra»; egli incoraggerà (come gli Inglesi) la
colonizzazione, quale sbocco di una popolazione pericolosamente congestionata; e proteggerà e praticherà
la religione. In special modo, un autocrate «si mostrerà sollecito di adorare gli dèi; perchè i sudditi, che lo
sanno religioso e riverente verso gli dèi, hanno meno paura di soffrire ingiustizie da lui e sono meno disposti
a cospirare a suo danno, credendo che gli dèi stessi combattono al suo fianco» (Politica, IV,5; V, 7: II, 11).
Con queste salvaguardie della religione, dell’educazione e dell’ordine nella vita familiare, serviranno bene
quasi tutte le tradizionali forme di governo. Tutte le forme hanno del buono e del cattivo insieme, e ciascuna
di esse può adattarsi a varie condizioni. In teoria, la forma ideale di governo sarebbe la centralizzazione di
tutto il potere politico in un uomo solo, il migliore. Omero ha ragione: «Il dominio di molti è cattivo; uno sia il
vostro padrone e signore». Per una simile, degna persona, la legge dovrebbe essere uno strumento,
piuttosto che un limite: «poichè per uomini d’ ingegno eminente non esiste legge; sono essi stessi una legge.
Sarebbe ridicolo chi tentasse di far leggi per loro; essi, probabilmente risponderebbero quel che, nella favola
di Antistene, i leoni dissero alle lepri, quando, nel concilio delle bestie, queste ultime cominciarono ad
arringare, chiedendo l’eguaglianza per tutti… «Dove sono i vostri artigli ?» (Politica, III. 13 – Aristotele, con
ogni probabilità, pensava, scrivendo questo passo, ad Alessandro o a Filippo, proprio come Nietzsche par
sia stato indotto a conclusioni simili per l’impressione ricevuta dalle brillanti carriere di Bismarck e di
Napoleone).
Ma, in pratica, la monarchia è, per solito, la peggior forma di governo, poichè la grande forza e la grande virtù
non sono strette alleate.
Nella realtà, quindi, il miglior governo e quello aristocratico, il regime dei pochi, capaci ed eruditi. Il governo
è una cosa troppo complessa, perché i problemi relativi alle leggi possano essere risolti da molti, quando
anche ai minimi occorre sapere e abilità. «Come il medico dev’esser giudicato dal medico, così gli uomini in
generale devono esser giudicati da’ loro simili… Perché, dunque, non si applicherà lo stesso principio alle
elezioni? Un’elezione riuscirà bene soltanto se fatta da coloro che ne hanno cognizione: per esempio, un
geometra sceglierà bene in fatto di geometria; o un pilota in fatto di navigazione… (Politica, III, 11 – Cfr. il
moderno argomento della “rappresentanza del lavoro” – O l’essenza dello Stato Corporativo”).
Così che, nell’elezione dei magistrati, nè il chiamarli al redde rationem dev’essere funzione di molti».
Nell’aristocrazia ereditaria la difficoltà è costituita dalla mancanza di una base economica permanente;
l’eterno avvicendarsi dei nouveaux riches mette, presto o tardi, il potere politico a disposizione del maggior
offerente. «Senza dubbio, è turpe che i più alti poteri… si possano comprare. La legge che permette questo
abuso fa maggior conto della ricchezza che dell’ingegno, e tutto lo Stato diventa avaro. Poiché, quando i capi
dello Stato stimano ed onorano qualche cosa, gli altri cittadini ne seguono con sicurezza l’esempio» (il
«senso imitativo » della moderna psicologia sociale); «e dove l’ingegno non tiene il primo posto non esiste
vera aristocrazia» Politica, II, 11).
La democrazia è, per solito, il risultato di una rivoluzione contro la plutocrazia. «L’amore del guadagno nelle
classi dominanti tende costantemente a diminuirne il numero» (“l’eliminazione della classe media» secondo
Marx), «e rinforza talmente le masse, che infine soverchiano i loro padroni e fondano le democrazie». Questo
«governo dei poveri » ha dei vantaggi. Il popolo, sebbene individualmente possa fornire giudici peggiori di
quelli che hanno particolare preparazione, il popolo, come collettività, ha del buono. Inoltre, le opere di certi
artisti sono giudicate, meglio che dagli artisti medesimi, da coloro che non professano l’arte; per esempio,
chi «abita in una casa o ne è padrone, sarà miglior giudice di essa che non il costruttore…; e l’ospite sarà
miglior giudice di un pranzo che non il cuoco» (Politica, II, 15, 8, 11).
E «i molti sono più difficilmente corruttibili dei pochi, come una maggior quantità di acqua si corrompe meno
facilmente di una quantità minore. L’individuo è esposto ad esser sopraffatto dalla collera o da qualche altra
passione, e il suo giudizio ne resta necessariamente sviato; ma è più difficile immaginare che molte persone
si lascino prendere tutte dalla collera o che sbaglino tutte insieme» (Politica, III, 15).
Non di meno, la democrazia, nel complesso, è inferiore all’aristocrazia (Politica, II, 9). Essendo basata su una
falsa supposizione di eguaglianza, ne «segue che quanti sono uguali sotto un certo rispetto (per esempio,
rispetto alla legge) sono uguali sotto tutti i rispetti; poiché gli uomini sono ugualmente liberi, pretendono di
essere assolutamente eguali». Nè risulta che l’ingegno è sacrificato al numero, mentre la maggioranza è
raggirata dall’inganno. Poiché il popolo si smarrisce facilmente ed è tanto volubile ne’ suoi punti di vista, il
suffragio sarà limitato alle persone intelligenti. Occorre un’alleanza dell’aristocrazia con la democrazia.
Il governo costituzionale offre questa felice unione. Non è il governo migliore che si possa concepire -esso
sarebbe un’aristocrazia di educazione – ma è il migliore che si possa attuare. «Dobbiamo chiederci quale sia
la migliore costituzione per il maggior numero di uomini; non supponendo un tipo di perfezione al di sopra
della gente comune, nè un’educazione eccezionalmente favorita dalla natura e dalle circostanze, e nemmeno
uno stato ideale che sarebbe soltanto un’aspirazione; ma avendo dinanzi agli occhi un genere di vita che
possa convenire alla maggioranza, e una forma di governo a cui possano pervenire tutti gli Stati in generale».
« È necessario cominciare a presupporre un principio di applicazione generale, e cioè, che la parte dello
Stato la quale desidera la durata dei Governo sia più forte di quella che non la desidera» (Politica, IV, 11, 10);
che la forza non consista soltanto nel numero, o soltanto nei beni, o soltanto nell’ingegno politico e militare,
ma in una combinazione di tutti questi fattori, in modo che si abbia riguardo a « libertà, ricchezza, cultura ed
alto lignaggio, così come alla pura superiorità numerica».
E dove troveremo una simile maggioranza economica per sostenere il nostro governo costituzionale? Forse,
meglio che altrove, nella classe media: ancora una volta ci troviamo di fronte all’aurea mediocrità, proprio
come il governo costituzionale sarebbe una via di mezzo tra quello democratico e l’aristocratico.
Il nostro Stato sarà abbastanza democratico se lascerà aperta a tutti la «via» degli impieghi; e abbastanza
aristocratico se gli impieghi stessi saranno chiusi a tutti, eccetto a coloro che avranno percorso la «via» e
saranno giunti alla meta completamente preparati.
Da qualsiasi punto si avvicini il nostro eterno problema politico, si raggiunge sempre la stessa monotona
conclusione: la collettività dovrebbe determinare gli scopi da perseguire, ma soltanto gli esperti dovrebbero
scegliere ed applicarne i mezzi; la scelta dovrebbe avere un’estensione democratica, ma l’impiego dovrebbe
esser rigidamente riservato ai migliori, preparati e selezionati.
(sempre di Will Durant)
“Che cosa diremo di questa filosofia? Forse, che essa non ci affascina affatto. È difficile essere entusiasti di
Aristotele, perchè fu difficile per lui entusiasmarsi di qualche cosa; e si vis me’ fiere, primum tibi flendum (“Se
volete che io pianga, dovete piangere voi per primi” -Orazio (“Ars poetica”) agli attori e scrittori)
Il suo motto è nil admirari -non ammirare o non meravigliarti di nulla!- e in questo caso, esitiamo a violare il
suo motto. Noi sentiamo mancare in lui lo zelo riformatore che troviamo in Platone, il furente amore per
l’umanità che indusse il grande idealista ad accusare gli uomini suoi pari. Noi sentiamo mancare in lui
l’ardimentosa originalità del suo Maestro, la superba immaginazione, la capacità alla generosa illusione.
Eppure, dopo aver letto Platone, nulla potrebbe esserci più salutare della scettica calma aristotelica.
Riassumiamo il nostro dissenso da lui. Siamo tediati, in principio, dal suo insistere sulla logica. Egli pensa
che il sillogismo sia la descrizione del modo di ragionare dell’uomo, mentre esso descrive soltanto il modo
con cui l’uomo veste il suo ragionamento per convincere un’altra persona; egli suppone che il pensiero
cominci con le premesse e cerchi le loro conclusioni, mentre, in realtà, i pensieri cominciano con ipotetiche
conclusioni, per cercare le loro premesse giustificatrici – e le cercano meglio con l’osservazione di fatti
particolari, a condizione che l’esperimento sia controllato e isolato.
Tuttavia, saremmo stolti se dimenticassimo che soltanto i duemila anni trascorsi hanno cambiato i « casi »
della logica aristotelica, che Occam e Bacone e Whewell e Mill e cento altri hanno trovato macchie nel suo
sole, e tuttavia la creazione di questa nuova disciplina del pensiero – la logica – creazione dovuta ad
Aristotele, ed il saldo affermarsi delle sue linee essenziali, resta tra le conquiste durature dell’intelligenza
umana.
Ancora: la mancanza di esperimenti e di ipotesi feconde lascia la scienza naturale aristotelica allo stato di una
massa informe di osservazioni non organizzate. La sua specialità è quella di collezionare e classificare dati; in
ogni campo manovra categorie ed erige cataloghi. Ma con questa inclinazione e giusto spirito di
osservazione va di pari passo una propensione platonica per la metafisica, e questa lo fa titubare in tutte le
scienze e rimaner accalappiato nei presupposti più impossibili. Qui era, veramente, il gran difetto della
mentalità greca: mancava di disciplina; non aveva tradizioni di limite e di costanza; si muoveva liberamente in
un campo indefinito e correva troppo svelto alle teorie e alle conclusioni. Perciò, la filosofia greca spiccò un
salto ad altezze mai più raggiunte, mentre la scienza greca fece un balzo indietro.
Il pericolo di noi moderni è quello precisamente opposto: dati induttivi affluiscono a noi da tutte le parti,
come la lava del Vesuvio; noi soffochiamo sotto una congerie di fatti non coordinati; la nostra mente è
sopraffatta dalla moltitudine delle scienze coltivate che si moltiplicano nel caos della specializzazione per
mancanza di pensiero sintetico e di una filosofia unificatrice. Siamo tutti frammenti di quel che dovrebbe
essere un uomo solo e completo.
L’etica di Aristotele è un ramo della sua logica: la vita ideale è simile a un bel sillogismo. Il filosofo ci dà un
manuale di buone maniere, piuttosto che uno stimolo a perfezionarci. Un antico critico parlò di lui come di
un «moderato all’eccesso». Un estremista direbbe l’Etica esempio tipico e collezione d’insulsaggini di tutte le
letterature; e un anglofobo si consolerebbe pensando che gli Inglesi, in gioventù, avevano fatto penitenza in
anticipo per i loro peccati d’imperialismo commessi nell’età matura, essendo stati obbligati, sia ad Oxford
come a Cambridge, a leggere l’Etica nicomachea, parola per parola.
Avremmo gran desiderio di mescolare fresche e verdi foglie d’erba a queste pagine secche, di aggiungere
l’esilarante giustificazione della gioia sensuale del Whitman all’esaltazione di una pura felicità intellettuale
aristotelica. Saremmo curiosi di sapere se questo ideale aristotelico di immoderata moderazione ha qualcosa
a che fare con la virtù incolore, la perfezione stecchita, la bella forma inespressiva della nobiltà inglese.
Matthew Arnold ci dice che, ai suoi tempi, i precettori di Oxford consideravano l’Etica infallibile. Per trecento
anni quest’opera e la Politica furono la direttiva delle menti inglesi, forse con scopi nobili e grandi, ma
certamente con influssi freddi e stentati. Quale sarebbe stato l’esito se i governanti del massimo impero
fossero stati, invece, educati col sacro fervore e la passione costruttiva della Repubblica?
Dopo tutto, Aristotele non era completamente greco; era già a posto e fortunato prima di venire ad Atene;
non c’era nulla dell’Ateniese in lui, nulla del concitato e ispirato sperimentalismo che faceva palpitare Atene
di élan politico ed infine contribuì ad assoggettarla ad un despota unificatore. Aristotele realizzò troppo
completamente il responso delfico di evitare l’eccesso: tanta è la sua ansia di astenersi dagli estremi, che,
infine, non gli resta nulla. Egli ha tanta paura del disordine, che giunge a dimenticare di aver paura della
schiavitù; è tanto timoroso di un mutamento incerto, che preferisce una stasi molto somigliante alla morte.
Gli manca il senso del mutevole, il senso del flusso che appartenne ad Eraclito, e giustifica il conservatore,
lasciandogli credere che ogni variazione permanente è graduale, come giustifica il radicale, lasciandogli
credere che nessun mutamento è permanente. Egli dimentica che il comunismo platonico era destinato
solamente all’élite, ai pochi disinteressati e non avidi; e pur deviando, giunge ad un risultato platonico
quando afferma che, sebbene la proprietà debba esser privata, la si deve godere, fin dove è possibile, in
comune.
Egli non vede (e forse non si poteva pretendere che in quei tempi ancora primitivi riuscisse a vedere) che il
controllo individuale dei mezzi di produzione era uno stimolo salutare soltanto quando quei mezzi erano
tanto semplici da essere accessibili a chiunque; e che la loro crescente complessità e costo conducevano ad
una dannosa centralizzazione della proprietà e del potere, nonchè ad una disuguaglianza artificiale e infine
distruttrice.
Ma, dopo tutto, queste sono critiche affatto trascurabili di ciò che resta il sistema di pensiero più
meraviglioso e di più vasta influenza che sia stato creato da una sola mente umana. È assai dubbio che
qualche altro pensatore abbia contribuito altrettanto ad illuminare il mondo. Ogni epoca posteriore ha attinto
da Aristotele ed è salita sulle sue spalle per vedere la verità. La varia e superba cultura alessandrina trovò in
lui l’ispirazione scientifica. Il suo Organo ebbe un role capitale nel plasmare le menti dei barbari medioevali e
farne intelligenze disciplinate di pensiero consistente. Le altre sue opere, tradotte da cristiani nestoriani in
lingua siriaca nel V sec. av. Cr., e da quella in arabo ed ebraico nel X sec., e da queste in latino nel 1225 circa,
fecero evolvere lo scolasticismo dagli eloquenti principi di Abelardo al compimento enciclopedico di Tomaso
d’Aquino. I crociati portarono seco, tornando, copie greche assai più corrette dei testi del filosofo; e gli
scolari greci di Costantinopoli portarono seco altri tesori aristotelici, quando, dopo il 1453, sfuggirono
all’assedio dei Turchi. Le opere di Aristotele furono, per la filosofia europea, quel che la Bibbia era per la
teologia – un testo quasi infallibile, con soluzioni di ogni problema.
Nel 1215, il legato papale a Parigi proibì agli insegnanti di tener lezioni sulle opere aristoteliche; nel 1231
Gregorio IX istituìi una commissione per purgarle; nel 1260 Aristotele era de rigueur in tutte le scuole
cristiane, e i concili ecclesiastici proibivano, sotto minaccia di pena, qualsiasi deviazione dai punti di vista di
esse. Chaucer descrive il suo studente felice di aver a capo del letto “Venti volumi ricoperti di nero e di rosso,
Di Aristotele e della sua filosofia”; e nel primo cerchio dell’Inferno, Dante dice “Vidi il maestro di color che
sanno/ Seder tra filosofica famiglia./ Tutti l’ammiran, tutti onor gli fanno/ Quivi vid’io e Socrate e Platone,/ Che
innanzi agli altri più presso gli stanno” (Inferno, canto IV, versi 131-135).
Questi versi ci danno indizio dell’onore che da un millennio si tributava allo stagirita. Il regno di Aristotele finì
soltanto quando la scienza venne ricostruita dai nuovi strumenti, dal cumulo delle osservazioni raccolte e da
pazienti esperienze, quando essa diede armi irresistibili ad Occam e a Ramus, a Ruggero e Francesco
Bacone. Ma nessun altro genio umano ha signoreggiato tanto a lungo l’intelligenza degli uomini.
Frattanto, la vita era diventata assai complicata per il nostro filosofo. Da un lato egli si trovò in imbarazzi,
avendo protestato contro Alessandro per l’esecuzione di Callistene suo nipote, il quale aveva rifiutato di
adorare il monarca come Dio. Alessandro rispose alla protesta facendo intendere che era nell’ambito della
sua onnipotenza mettere a morte anche i filosofi. Nello stesso tempo Aristotele era occupato a difendere
Alessandro presso gli Ateniesi. Egli preferiva la solidarietà di tutta la Grecia al patriottismo cittadino,
pensando che la cultura e la scienza avrebbero fiorito meglio con lo sparire delle minuscole sovranità e delle
discordie; egli vedeva in Alessandro ciò che Goethe avrebbe, a suo tempo, visto in Napoleone – l’unità
filosofica di un mondo caotico e insopportabilmente molteplice. Gli Ateniesi, famelici di libertà, brontolarono
contro Aristotele, e si fecero anche più amari quando Alessandro fece porre una statua del filosofo nel cuore
della città ostile.
Questi eventi contradittori ci dànno di Aristotele un’idea contraria a quella che lascia in noi la lettura della sua
Etica: non è più l’uomo freddo, inumanamente calmo, ma un combattente, che prosegue nella sua opera
titanica, assediato tutt’intorno da nemici. I successori di Platone all’Accademia, la scuola oratoria d’Isocrate e
le turbe irate che pendevano dall’acre oratoria di Demostene, tutti intrigavano e chiedevano tumultuosamente
l’esilio o la morte per lui.
Improvvisamente, nel 323 av. Cr., Alessandro morì. Atene si diede a selvagge espressioni di gioia patriottica;
il partito macedone fu rovesciato e si proclamò l’indipendenza ateniese. Antipatro, successore di Alessandro
ed intimo amico di Aristotele, marciò alla volta della città ribelle. La maggior parte degli appartenenti al partito
macedone fuggirono. Eurimedone, capo dei sacerdoti, accusò Aristotele di aver insegnato che preghiera e il
sacrificio sono inutili.
Aristotele si vide destinato a subire il processo davanti a una giuria e ad un popolo assai più ostili di quelli
ARISTOTELE – LO STATO UTOPIA http://cronologia.leonardo.it/storia/ac383.htm
8 of 9 27-Sep-10 3:08 AM
che avevano assassinato Socrate. Molto saggiamente egli preferì abbandonare subito la città, dicendo che
non voleva dare ad Atene l’occasione di commettere un secondo crimine contro la filosofia. Questo atto non
era vile; un Ateniese, accusato, aveva sempre la scelta fra la condanna e l’esilio (Grote, 20). Arrivato a Calcide,
cadde ammalato: Diogene Laerzio ci fa sapere che il vecchio filosofo, colpito dalla più acerba delusione per la
ostilità degli avvenimenti che si accanivano contro di lui, si suicidò bevendo la cicuta (2). Comunque, la sua
malattia apparve fatale; e pochi mesi dopo aver lasciato Atene, nel 322 a. C., il solitario Aristotele mori.
Nello stesso anno e alla stessa età (sessantadue anni) Demostene, il più grande dei nemici di Alessandro,
bevve il veleno. In dodici mesi la Grecia perdette il suo massimo imperatore, il suo massimo oratore ed il suo
massimo filosofo. La gloria della Grecia dileguò nel sorgente sole di Roma; ma la grandezza romana avrebbe
veduto il fasto del potere, piuttosto che la luce del pensiero.
E quando anche la grandezza romana declinò, quella piccola luce quasi si spense. Per un millennio l’oscurità
dominò su tutta l’Europa. Tutto il mondo aspettava la risurrezione della filosofia. (Grote, 22; Zeller, I, 37).
Presto o tardi il pensiero europeo sarebbe uscito dal suo guscio.
.Dopo un millennio, il suolo tornò a fiorire; si cominciò a produrre in grande abbondanza, e questa
superproduzione diede incremento al commercio; a’ suoi punti di incontro il commercio riedificò grandi città,
in cui gli uomini poterono cooperare all’incremento della cultura e a ricostruire la civiltà. Le Crociate aprirono
la via dell’Oriente e portarono una ventata di lusso e di eresie, le quali condannarono l’ascetismo e il dogma.
La carta veniva ormai, con poca spesa, sostituendo la costosa pergamena, che aveva reso la cultura
monopolio del clero; la stampa, che aveva atteso da molto tempo un mezzo economico, esplose come un
proiettile lanciato, e fece sentire ovunque la propria influenza distruttrice e chiarificante. Coraggiosi
navigatori, armati ormai della bussola, s’avventurarono nelle solitudini dell’aperto oceano e sottrassero il
globo all’ignoranza umana; osservatori pazienti, armati di telescopi si cimentarono oltre i confini del dogma e
vinsero l’umana ignoranza del cielo. Qua e là, nelle università, ne’ monasteri, in nascosti eremitaggi gli
uomini cessarono le dispute e incominciarono le ricerche; l’alchimia si trasformò in chimica; uscendo
brancolante dall’astrologia, l’uomo, con timida baldanza, trovò le vie all’astronomia; e dalle favole degli
animali parlanti ebbe origine la scienza della Zoologia.
Il risveglio incominciò con Ruggero Bacone (m. 1292); poi s’intensificò, e a mano a mano che il sapere
cresceva diminuiva il terrore; gli uomini pensarono meno ad adorare l’ignoto e più a conquistarlo. Ogni
spirito vitale si sentì sollevato da una fiducia nuova; le barriere furono abbattute; non v’era ormai salto che
l’uomo non potesse fare. « Ma il fatto che minuscoli velieri, al pari di corpi celesti, navigassero attorno al
globo, costituisce la felicità del nostro tempo. Oggi potremmo giustamente usare l’espressione plus ultra, là
dove gli antichi scrissero invece non plus ultra.
Iniziò un’era di prodezze, di speranze e di energie; di conquiste e di nuove imprese in ogni campo; un’era che
attendeva la sua voce, un’anima sintetica che riassumesse lo spirito del tempo, chiarendolo.
Francis Bacon (1561-1626), la “mente più potente dei tempi moderni” (cito, Payne nella sua “Storia Moderna”)
chiamò a raccolta gli animi, ed annunciò che l’Europa si era fatta maggiorenne.
http://cronologia.leonardo.it