Aristotele – Αριστοτέλης (384 – 322 π.Χ.)
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Proponiamo qui uno schematico riassunto dell’Etica a Nicomaco di Aristotele. L’opera, divisa in dieci libri, venne così intitolata perché fu il figlio di Aristotele, Nicomaco, a raccogliere e divulgare le lezioni tenute dal padre. Soprattutto nei libri V, VI e vi si notano frequenti interpolazioni e manipolazioni dovute a discepoli del maestro e a successivi compilatori. L’opera fu pubblicata perla prima volta, insieme al corpus delle altre opere aristoteliche, da Andronico di Rodi (50-60 a.C.).
LIBRO I
I primi due libri dell’Etica e capp. 1-6 del terzo sono dedicati a definire l’oggetto della ricerca morale che è il bene dell’uomo, inteso non astrattamente, ma come il massimo dei beni che si può acquisire e realizzare attraverso l’azione. Per Aristotele l’etica è una scienza eminentemente pratica e in essa il sapere deve essere finalizzato all’agire. In questo senso, radicale è la critica rivolta a Platone, che considera ontologicamente il bene come Idea suprema e, come tale, inattingibile dall’uomo. E il sommo bene a cui ogni individuo tende è la felicità (eudaimonia). Ciascuno, però, l’intende a suo modo: chi la ripone nel piacere (edonh) e nel godimento; chi nella ricchezza; chi nell’onore, chi, invece, nella vita contemplativa (bioV qeorhtikoV). Ma il vero bene, e con esso la vera felicità è qualcosa di perfetto, termine ultimo a cui si richiamano tutte le determinazioni particolari: “Ciò che è sufficiente in se stesso è ciò che, pur essendo da solo, rende la vita sceglibile e non bisognosa di nulla; ora, una cosa di questo genere noi riteniamo che è la felicità”, la quale consiste in “un’attività dell’anima razionale secondo virtù e, se le virtù sono molteplici, secondo la più eccellente e la perfetta”.
Dalla felicità l’indagine si sposta quindi alla virtù. Un’importante distinzione viene fatta, nell’ambito delle virtù umane, tra le virtù dianoetiche, che sono proprie della parte intellettuale dell’anima, e le virtù etiche che corrispondono alla parte appetitiva dell’anima, in quanto guidata dalla ragione.
LIBRO II
Nel secondo libro Aristotele si sofferma a esaminare la natura di tali virtù: esse le virtù sono del carattere e derivano dall’abitudine, da cui hanno tratto anche il nome (“etiche” da hqoV) e non si possiedono per natura, anche se per natura l’uomo ha la capacità di acquisirle, e si determinano soltanto in base ad una serie azioni di una certa qualità; esse consistono nella “disposizione a scegliere il “giusto mezzo” adeguato alla nostra natura, quale è determinato dalla ragione, e quale potrebbe determinarlo il saggio”. Il giusto mezzo si trova tra due estremi, di cui uno è vizioso per eccesso e l’altro per difetto, cosicché, nel passare ad enumerare le singole virtù Aristotele considera:
il coraggio come giusto mezzo tra la viltà e la temerarietà,
la temperanza come giusto mezzo tra intemperanza e insensibilità,
la liberalità come giusto mezzo tra avarizia e prodigalità,
la magnanimità come giusto mezzo tra la vanità e l’umiltà,
la mansuetudine come giusto mezzo tra l’irascibilità e l’indolenza.
La virtù principale, comunque, è la giustizia a cui sarà dedicato l’intero quinto libro.
LIBRO III
Il terzo libro concerne l’atto pratico, al fine di definire la volontarietà e l’involontarietà dell’azione: “Poiché involontario è ciò che si compie per costrizione e per ignoranza, si converrà che volontario è ciò il cui principio risiede nel soggetto, il quale conosce le condizioni particolari in cui si svolge l’azione”. E’ chiaro, quindi, come per Aristotele la virtù e la malvagità dipendono soltanto dall’individuo, il quale è libero di scegliere in quanto “è il principio e il padre dei suoi atti come dei suoi figli”.
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LIBRO IV
Il libro quarto è dedicato all’esame di particolari virtù etiche, già enumerate nel secondo libro.
LIBRO V
Il libro quinto tratta della giustizia, la virtù intera e perfetta: “La giustizia è la virtù più efficace, e né la stella della sera, né quella del mattino sono cosi meravigliose, e citando il proverbio diciamo:Nella giustizia ogni virtù si raccoglie in una sola. Ed è una virtù perfetta al più alto grado perché chi la possiede è in grado di usare la virtù anche verso gli altri e non soltanto verso se stesso”. Esiste una giustizia distributiva a cui compete di dispensare onori o altri beni agli appartenenti alla stessa comunità secondo i meriti di ciascuno, ed essa è simile ad una proposizione geometrica in quanto le ricompense e gli onori distribuiti a due individui stanno in rapporto tra di loro, come i rispettivi meriti di costoro. Esiste poi una giustizia correttiva simile ad una proposizione aritmetica, il cui compito è di pareggiare i vantaggi e gli svantaggi nei rapporti contrattuali tra gli uomini sia volontari che involontari. Sulla giustizia è fondato, inoltre, il diritto che Aristotele distingue in diritto privato e diritto pubblico, a sua volta distinto in diritto legittimo, che è quello fissato dalle leggi vigenti nei vari stati, e in diritto naturale, che è il migliore in quanto è “ciò che ha la stessa forza dappertutto ed è indipendente dalla diversità delle opinioni”. Viene, poi, definita l’equità, la cui natura “è la rettificazione della legge là dove si rivela insufficiente per il suo carattere universale”; cosicché il giusto e l’equo sono la stessa cosa in quanto l’equo è superiore non al giusto in sé, ma al giusto formulato dalla legge, che nella sua universalità è soggetta all’errore.
LIBRO VI
Il sesto libro contiene la trattazione delle virtù dianoetiche, che sono proprie dell’anima razionale. Esse sono la scienza, l’arte, la saggezza, l’intelligenza, la sapienza. La scienza (episthmh) è “una disposizione che dirige la dimostrazione” ed ha per oggetto ciò che non può essere diversamente da quello che è, vale a dire il necessario e l’eterno; l’arte (tecnh) è “una disposizione accompagnata da ragionamento vero che dirige il produrre” ed è diversa, pertanto, dalla disposizione che dirige l’agire, in cui consiste la saggezza, che è definita “come l’abito pratico razionale che concerne ciò che è bene o male per l’uomo” ed ha una natura mutevole al pari dell’uomo; l’intelligenza è un abito razionale che ha la facoltà di intuire i principi primi di tutte le scienze, nonché i “termini ultimi”, i fini, cioè, a cui deve indirizzarsi l’azione, e insieme con la scienza costituisce la sapienza (sofia), che è il grado più elevato e universale del sapere, in quanto è “insieme scienza e intelligenza delle cose più alte per natura” e, come tale, è ben distinto dalla saggezza.
LIBRO VII
Il settimo libro tratta della temperanza e dell’intemperanza, della fermezza di carattere e della mollezza, e in ultimo, del piacere, definito “l’atto di un abito che è conforme a natura”. In questo senso il piacere, come disposizione libera e costante, svincolata dalla sensibilità, rappresenta il fondamento della felicità.
LIBRI VIII e IX
L’ottavo e il nono libro sono dedicati all’amicizia, che Aristotele considera “una cosa non soltanto necessaria, ma anche bella”, in quanto “nessuno sceglierebbe di vivere senza alici, anche se fosse provvisto in abbondanza di tutti gli altri beni”: “L’amicizia è una virtù o s’accompagna alla virtù; inoltre essa è cosa necessarissima per la vita. Infatti nessuno sceglierebbe di vivere senza amici, anche se avesse tutti gli altri beni (e infatti sembra che proprio i ricchi e coloro che posseggono cariche e poteri abbiano soprattutto bisogno di amici; infatti quale utilità vi è in questa prosperità, se è tolta la possibilità di beneficare, la quale sorge ed è lodata soprattutto verso gli amici? O come essa potrebbe esser salvaguardata e conservata senza amici? Infatti quanto più essa è grande, tanto più è malsicura). E si ritiene che gli amici siano il solo rifugio nella povertà e nelle altre disgrazie; e ai giovani l’amicizia è d’aiuto per non errare, ai vecchi per assistenza e per la loro insufficienza ad agire a causa della loro debolezza, a quelli che sono nel pieno delle forze per le belle azioni”. Tre sono le specie dell’amicizia a seconda che sia fondata sul piacere reciproco, sull’utile o sulla virtù: “Tre dunque sono le specie di amicizie, come tre sono le specie di qualità suscettibili d’amicizia: e a ciascuna di esse corrisponde un ricambio di amicizia non nascosto. E coloro che si amano reciprocamente si vogliono reciprocamente del bene, riguardo a ciò per cui si amano. Quelli dunque che si amano reciprocamente a causa dell’utile non si amano per se stessi, bensì in quanto deriva loro reciprocamente un qualche bene; similmente anche quelli che si amano a causa del piacere. (…) L’amicizia perfetta è quella dei buoni e dei simili nella virtù. Costoro infatti si vogliono bene reciprocamente in quanto sono buoni, e sono buoni di per sé; e coloro che vogliono bene agli amici proprio per gli amici stessi sono gli autentici amici (infatti essi sono tali di per se stessi e non accidentalmente); quindi la loro amicizia dura finché essi sono buoni, e la virtù è qualcosa di stabile; e ciascuno è buono sia in senso assoluto sia per l’amico. Infatti i buoni sono sia buoni in senso assoluto, sia utili reciprocamente”. Mentre quella fondata sul piacere e sull’utile si rivela accidentale e cessa quando il piacere o l’utile vengono meno, quella invece fondata sulla virtù è perfetta ed è la più stabile ferma. Ci sono poi tante specie di amicizia quante sono le comunità organizzate della società civile; ma in ultima istanza è nella comunità politica, che ha per fine l’utile comune, che devono essere individuate le condizioni più generali dell’amicizia. E per ogni tipo di configurazione istituzionale si hanno forme diverse di amicizia. Aristotele si sofferma qui ad indagare sui diversi gradi di amicizia e di giustizia che si realizzano nella varie costituzioni, rette e degeneri, concludendo che “a poca si ridicono le amicizie e il giusto nelle tirannidi, mentre nelle democrazie la loro importanza è grande, giacché molte sono le cose comuni a coloro che sono uguali”. L’indagine si sposta poi all’interno delle comunità domestiche per analizzare i vari rapporti tra i componenti del nucleo familiare, stabilendo dei nessi tra tali amicizie e quelle contratte nelle varie comunità politiche.
LIBRO X
L’ultimo libro completa la determinazione della felicità e definisce in che cosa consista il sommo bene. Se la felicità è fondata sull’agire secondo virtù e se si considera che le virtù dianoetiche sono superiori a quelle etiche e, in particolare, che la virtù più alta è quella teoretica, che culmina nella sapienza, cioè nella vita contemplativa. La contemplazione (qeoria), infatti, è l’attività più elevata in quanto è attività dell’intelletto; è l’attività più continua e che dà più piacere, perché i piaceri della filosofia sono i più intensi e i più sicuri; è l’attività più autosufficiente perché il sapere basta a se stesso e nulla deve ricercare fuori di sé per coltivare al sua sapienza; è l’attività che si ama in se stessa, perché ha in sé, nella contemplazione, il suo fine unico. Infine è l’attività svolta da Dio stesso, che è “pensiero di pensiero” e che pensa senza soluzione di continuità: nella misura in cui esercita il pensiero – che è la caratteristica che rende l’uomo veramente tale -, l’uomo partecipa della vita divina; tuttavia, in quanto essere naturale, l’uomo non può esercitare senza interruzione l’attività contemplativa, giacchè deve sopperire ai bisogni fisici che la natura gli impone (il soddisfacimento della fame, della sete, ecc). http://www.filosofico.net
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