Paolo Stomeo ad Atene.

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Παρουσιάζουμε τη διάλεξη του καθ. Πάολο Στομέο στην Αθήνα (1958). Ο καθηγητής αναφέρεται στον αείμνηστο Vito Domenico Palumbo και παρουσιάζει την πολιτιστική ζωή των Ελληνοφώνων του Σαλέντου

Conferenza inedita tenuta dal prof. Paolo Stomeo
nella sala dell’Istituto italiano di Cultura di Atene

VITO DOMENICO PALUMBO
PIONIERE DEI RAPPORTI CULTURALI ITALO GRECI

(Atene- 22 marzo 1958) Non senza una profonda ed intima trepidazione mi accingo a rievocare davanti all’eletto e colto pubblico ateniese, che mi ascolta, la figura di Vito Domenico Palumbo, un pioniere, si può dire, dei rapporti culturali tra l’Italia e la Grecia.
Il suo nome di studioso dei problemi etnografici delle colonie greche di Terra d’Otranto e di divulgatore della letteratura neo ellenica in Italia era noto a valorosi cultori di analoghi studi in Europa, ma nessuno, dopo la sua morte, fece mai un attento esame dei suoi meriti e delle sue attività come studioso e come iniziatore di quei rapporti che, dopo il glorioso risorgimento nazionale della Grecia, dovevano condurre gli Italiani al riscoprimento dei legami veri ed intimi che stringono i nostri due popoli in unità di tradizioni di civiltà e di collaborazione nel raggiungimento dell’umano progresso.

Vito Domenico Palumbo come discendente da stirpe greca trapiantata in Italia, era colui che più di ogni italiano potesse avere la sensibilità di rappresentare le ragioni profonde che legano sentimentalmente l’Italia meridionale alla Grecia in tanti secoli di storia, e ben si può dire dalle testimonianze del suo lavoro indefesso, continuo e appassionato, che egli poteva considerarsi allora come il console più incerto dei greci in Italia. In ogni cittadino della Grecia egli vedeva non solo un caro amico, ma ravvisava addirittura un consanguineo della stessa razza discendente da comuni nonni fin da tempi remoti. Egli infatti desiderava ardentemente che nelle colonie bizantine del nostro Salento non solo rifiorisse nella sua purezza la lingua greca, ma ritornasse anche nelle chiese il sacerdote con la pura e nobile liturgia ortodossa. Quest’uomo così meritevole della nostra riconoscenza sarebbe stato forse dimenticato, se un illustre concittadino, il professor Giuseppe Gabrieli, bibliotecario dell’Accademia dei Lincei di Roma, altro cultore delle tradizioni greco-salentine, non avesse pubblicato di lui una breve memoria con una nota bibliografica della sua produzione in gran parte inedita.

Questa nota bibliografica è assai preziosa, perché la produzione inedita del Palumbo supera quantitativamente quella parte già pubblicata da lui stesso. Anche se gran parte di ciò che vi era di inedito è andata perduta, posso dire che il Gabrieli è stato per me una guida assi preziosa nel rintracciare ciò che del Palumbo è rimasto in salvo. S’imponeva da tempo il bisogno di consultare le sue carte che erano state recuperate, anzi comprate, dal nipote pittore Michele Palumbo, residente in Lecce, da una sua cugina calimerese che era rimasta l’erede dell’umile casa del compianto ellenista e di tutte le cose che furono sue e che ivi si trovavano. Ma quando il pittore recuperò i libri e le carte, tutto ciò che era rimasto si riduceva ormai a ben poco o perché disperso o perché ceduto come carta da salumieri. Ahimè! Assai misera è la sorte dei manoscritti degli studiosi, se anche dopo la morte li perseguita la mala fortuna.
Tra questi sventurati va dunque annoverato il Palumbo, ed è per questo che io l’ho ricercato con tanta simpatia e l’ho rievocato con tanto amore in una monografia storico letteraria, dove ho ricostruito la figura di poeta e di letterato e il suo notevole contributo agli studi neo- ellenici in Italia.

Ma non è poi del tutto vero che egli fosse stato completamente dimenticato dagli studiosi che potevano realmente apprezzare la sua opera preziosa. Dopo la morte del nipote, gelosissimo conservatore ed occultatore dei manoscritti dello zio, il primo a venire a consultarli fu l’inglese Dawkins, direttore dell’Istituto Archeologico di Atene, che aveva conosciuto personalmente il Palumbo per essere andato a trovarlo a Calimera nel 1910. Il prof. Dawkins, venuto a Lecce or sono alcuni anni presso i figli dello scomparso pittore, compulsò per ben tre giorni avidamente le carte conservate nelle vecchie casse. E ancor prima, cioè nel 1947 e poi nuovamente nel 1950, il prof. Lavagnini mi scriveva da Palermo insistendo sulla capacità di recuperare le carte appartenenti al Palumbo, preoccupato che si potessero perdere dopo la morte del nipote presso la cui abitazione, come ho già detto le aveva consultate il Dawkins.

L’importanza dell’opera del Palumbo mi si rivelò definitivamente in occasione del secondo congresso internazionale di studi salentini tenutosi a Lecce nell’ottobre 1952, dove presi atto del ritrovamento dei manoscritti e venni a conoscenza della lettera di adesione del compianto professore Fedon Koukoulès dell’Università di Atene, con la quale l’illustre studioso greco comunicava al Presidente del Congresso che ad Atene esistono manoscritti inediti di Vito Domenico Palumbo contenenti materiali linguistici e folkloristici di Terra d’Otranto e che, se la Società di Storia Patria della Puglia avesse voluto assumersi l’edizione, egli volentieri si sarebbe interessato affinché le venisse concesso di pubblicarli. Questa importante notizia, che destò nei congressisti, convenuti a Lecce da ogni parte del mondo, vivissimo interesse l’illustre mio compatriota , fu oggetto di particolare soddisfazione per tutti noi del Salento, che da tempo aspettavamo che un uomo così benemerito fosse degnamente onorato.

La circostanza che il nostro Palumbo fosse ricordato da uno studioso greco di fama internazionale, qual è il Koukoulès, e il vivo interesse dimostrato dal Dawkins e dal Lavagnini e la fortunata occasione che il dotto mio amico Petros Kolonaros fosse venuto nella mia terra a farmi dono della introvabile conferenza tenuta dal Palumbo alla sala Parnassòs di Atene nel 1896, mi incoraggiarono e mi incitarono a ricercare principalmente quali fossero stati i rapporti tra il Palumbo e i rappresentanti del mondo culturale greco e quale motivo lo avesse spinto a venire qui ad Atene per tenervi una conferenza sullo stato dei dialetti greci dell’Italia Me

V. D. Palumbo, letterato e grecista nutrito di cultura moderna, conoscitore profondo della letteratura neo ellenica e della lingua e del folklore greco-italico calimerese, poeta e scrittore geniale ed elegante, nacque da genitori virtuosi e discretamente agiati, a Calimera, uno dei nove comuni ellenofoni di Terra d’Otranto, il 22 aprile 1854. Compiute le scuole elementari e medie, fu distratto per qualche tempo nei suoi studi dagli obblighi militari. Ma in realtà in questo periodo di apparente distrazione, ubbidendo alla sua naturale inclinazione per lo studio, egli andò approfondendo sempre più la sua cultura con svariate letture, e, dopo avere scritto i primi saggi in componimenti originali, ritornò a meditare sui classici che erano stati l’eccezionale nutrimento spirituale della sua prima giovinezza. Traduceva in versi da Omero, da Virgilio, da Catullo, e approfondiva lo studio degli altri classici greci e latini, e coltivava nello stesso tempo lo studio dei grandi poeti italiani e stranieri, dai quali attinse la vastità e l’ampiezza dei suoi orizzonti letterari.

Le varie peregrinazioni da lui compiute in Italia da soldato e poi da Ufficiale dell’Esercito erano servite a metterlo in contatto con gli ambienti culturali, dai quali egli ritornava nella sua piccola Calimera, nido dei suoi sogni,, sempre carico di nuovi libri e di materiale vario di ricerca per rituffarsi con più lena nello studio e nella meditazione con cui andava sempre più affinando e corroborando la sua cultura e il suo gusto. Egli era un uomo forte e robusto, di bella presenza, d’indole aperta e gioviale, di carattere leale, delicato ed arrendevole, oltre che di mente lucida e di pronta percezione. Conosceva parecchie lingue: la francese e la greca moderna, le scriveva e le parlava come lingue materne. A Firenze egli studiò per un anno alla scuola di Scienza Sociali, e poi per un altro anno all’Istituto di studi superiori, Ma, ribelle forse ad ogni severità di studi normativi, che non appagavano le sue aspirazioni per una formazione vasta ed enciclopedica ( egli era essenzialmente un autodidatta e un romantico), passò a Napoli a studiarvi legge, che abbandonò dopo tre anni per darsi di nuovo alle lettere, nelle quali si dedicò particolarmente agli studi greci medievali. Per l’acuto e vivace ingegno dimostrato in tali studi, nei quali del resto aveva dato saggi d’interpretazioni e di traduzioni in versi del tutto originali, fu inviato dal Ministero della Pubblica Istruzione, ( forse per interessamento del celebre Ruggero Borghi che molto lo stimava ) qui ad Atene con un assegno straordinario per perfezionarsi in greco moderno in questa Università nell’anno accademico 1882 / 1883. Qui ad Atene egli ebbe subito occasione di farsi notare, anche, perché, data la sua origine da antiche Colonie bizantine, oltre alla conoscenza acquistata per via dello studio della grammatica e dei testi neoellenici già da alcuni anni, egli maneggiava con spontaneità la lingua greca e la parlava con disinvoltura.

Uno dei suoi primi amici tra i giovani letterati greci, del tempo in cui studiò a Napoli, fu il romanziere e commediografo Baby Anninos , discreto conoscitore della lingua italiana e ammiratore sincero dell’Italia, al quale egli dedicò nel 1881 la sua prima raccolta di traduzioni dal greco moderno con queste parole: “ A Baby Anninos come a fratello”. Tra le sue carte ho trovato due lettere di Anninos in lingua italiana: l’una del 1895, l’altra del 1908. Nella prima, abbastanza ampia, l’Anninos informava il Palumbo di aver sospeso l’edizione della rivista “ Parnassòs” e di avere intrapreso l’edizione della rivista settimanale illustrata “ Ta Olympia “, alla quale lo invitava a collaborare.

Le magnifiche zolle salentine di terra rossa

Lo pregava inoltre di spedirgli copie dei principali giornali illustrati italiani e lo metteva a parte di una polemica sorta intorno a una sua commedia intitolata “ La vittoria di Leonida, perché era stato a torto accusato di aver plagiato l’opera del commediografo italiano Bersezio intitolata “ Povera Giovanna “. Nell’altra lettera gli forniva notizie bibliografiche, gli parlava con soddisfazione dei suoi successi per la nuova rivista teatrale “ Panathinèa”, si congratulava col Palumbo, anche in nome degli amici greci, per la onorificenza ottenuta ( si riferiva all’onorificenza dell’Ordine Cavalleresco del ‘ Salvatore’) di cui il Palumbo era stato insignito dal Re Giorgio per le sue benemerenze verso la Grecia, ( e di cui si era occupata la stampa greca), gli dava infine notizie degli amici ateniesi N. Politis, Giorgio Surìs, Giovanni Polemis, Giovanni Damverghis, Margaritis Evanghelidis, Thermos Anninos.

Tra i letterati greci divenuti suoi amici prima ancora che egli si recasse in Grecia, figura anche Demetrio Vikelas, del quale egli aveva tradotto in italiano alcune liriche dello stesso volumetto pubblicato a Lipsia in Germania, con una prefazione, dove egli dice espressamente di onorarsi dell’amicizia di Vikelas soprattutto per il gran valore e per la rarissima modestia e gentilezza che lo distinguevano. In un diario del Palumbo che si riferisce al tempo da lui trascorso in Grecia nel 1883 sono ricordati ancora tra i suoi amici: Athanatos, direttore del periodico “ Nee Idèe”, Argyropulos, presidente del circolo filologico Parnassòs di Atene, G. Hatzidakis, studioso di problemi linguistici, il filosofo Papadopulos ed altri. Nell’elenco dei collaboratori della rivista “ Cultura Salentina” fondata e diretta dal Palumbo figurano inoltre G. Romanos, preside del ginnasio di Corfù, e il poeta Giorgio Drosinis.

Galatina:Chiesa di S. Caterina

Di Kostis Palamàs, che il Palumbo certamente conobbe di persona nel suo viaggio in Grecia nel 1896, si conserva fra i suoi libri il volume di poesie intitolato “ La vita immobile”, edito dalla tipografia “Hestia” nel 1904, con questo autografo del poeta: ” Al Signor Vito Palumbo con molta stima e affetto”. Ma Nicola Politis gli fu, a quanto pare, il più caro fra gli amici greci per lunga e scambievole stima e per fraterno affetto.. Nel dedicare a lui la seconda edizione della sua traduzione dei Canti Rodii Medievali del 1912, così scrive tra l’altro il Palumbo: “ A te questo libretto… perché sia un attestato per quanto modesto della schietta e inalterata amicizia di tanti anni, amicizia che però ha assunto quasi il carattere, direi, sacro, di fraternità ideale”.Studi analoghi legavano il Palumbo al Politis con un’affinità di sentimenti tutta particolare. Anche il Palumbo infatti si era dato allo studio del folklore greco-salentino e col Politis perseguiva i medesimi ideali. Al Politis egli riconosceva“il mutato aspetto dei suoi Canti Rodii, a lui insigne e dottissimo maestro nella materia spettava il maggior merito per i sagaci ed eruditi studi alriguardo”

Da parte sua anche il Politis manifestò in un suo articolo nella rivista “ Laografia” la grande stima che aveva per l’opera folkloristica del Palumbo. Tra le carte del Palumbo si trovano due lettere del Politis. Nella lettera che ha la data del 2 novembre 1895, il Politis gli forniva alcune informazioni bibliografiche e prometteva di spedirgli alcuni suoi lavori. Le informazioni bibliografiche riguardano l’edizione dell’Erofili di Chortazis e una raccolta di proverbi. Gli comunicava inoltre che per la pubblicazione dei suoi lavori ( a quanto pare il Palumbo gliene aveva fatto richiesta ) non vi erano periodici adatti in Grecia, all’infuori del periodico “ Parnassos” diretto da Baby Anninos, la cui pubblicazione cessava, sfortunatamente, proprio allora, ma che, se avesse voluto aspettare, glieli avrebbe pubblicati sul “ Bollettino della Società Storico Etnografica della Grecia”, di cui egli stesso era rappresentante. Nella lettera del 13 febbraio 1909 gli comunicava che gli avrebbe spedito alcune sue pubblicazioni, gli dava informazioni bibliografiche, segnalandoli particolarmente le opere del Palamàs, del Drosinis, del Karkavitsas, del Papadiamandis, e gli annunziava la morte del Maraslìs e l’interruzione della pubblicazione del periodico “ Biblioteca”.

Lo informava anche del suo interessamento per l’istituenda scuola greca in Calimera, per la quale erano stati fatti dei passi dal Palumbo presso il Ministero degli Esteri greco fin dal 1896. Lo invitava infine a collaborare a un nuovo periodico trimestrale della “Società Laografica” per quanto riguardava il folklore greco-salentino, nel quale campo il Palumbo era ormai molto apprezzato presso gli etnografi europei ( collaborava alla rivista internazionale “ Museon” di Louvain ) e particolarmente in Turchia, dove per i suoi manoscritti sul folcklore greco-salentino vinse due volte il premio nel concorso “ Zogràfo” del Circolo filologico di Costantinopoli. I testi premiati ( la prima volta nel 1887 ), scritti in francese, erano:” Le Mithe de Psychè” e il “ Petit Chansonnier Greco-Salentin” che pare siano quelli stessi manoscritti a cui accenna il prof. Koukoulès e che si trovano elencati nel lessico storico dell’Accademia di Atene.

La stima che il Palumbo godeva nel mondo culturale greco, anche nelle diramazioni letterarie di Costantinopoli e di Alessandria di Egitto, era cominciata ad imporsi fin da quando egli venne a perfezionarsi all’Università di Atene, e cioè dal 1882, allorché fu nominato, con diploma che si conserva, socio corrispondente del Circolo Filologico Parnassòs, che, come si sa, fu il primo sodalizio letterario di Atene e fu fondato da un gruppo di giovani nel 1865. Sebbene contemporaneamente fossero sorti ad Atene i Circoli giovanili “ Byron” “ Evanghelismòs” “Athineon “ “ Associazione degli amici del popolo”, che preannunziavano competizioni ed esordivano con pubblicazioni di nuovi periodici, tuttavia molto più forte e più vivo si manifestò il Circolo Parnassòs che cominciò dal 1887 la pubblicazione del suo periodico omonimo.

Iniziatore su questo periodico fu Emanuele Rhoidis con la pubblicazione della famosa Papessa Giovanna, opera che il Palumbo tradusse in italiano e che rimane inedita. I rapporti culturali, esistenti tra il Circolo Filologico Parnassòs e i grandi poeti, letterati e studiosi italiani, sono attestati non solo dalla persona del Palumbo, ma anche dai nomi di Gabriele D’Annunzio, Emilio Teza, Giosuè Carducci, Filippo Mariotti, Francesco Zambaldi, che ne furono soci onorari, e dai nomi di Lancia di Brolo, Giuseppe Pitrè, Giacomo Tropèa, che ne furono corrispondenti. In virtù dei titoli ottenuti ad Atene e delle sue pubblicazioni il Palumbo nel 1884 fu nominato professore di materie letterarie nei Ginnasi italiani e continuò il suo insegnamento fino al 1896, allorché ottenne dal Ministero della Pubblica Istruzione licenza di venire qui ad Atene per tenervi la conferenza sulle colonie greco-salentine. Lo scopo cui egli mirava era quello di ottenere aiuti per la conservazione del greco delle isole linguistiche di Terra d’Otranto. Un’altra conferenza dello stesso tenore egli tenne nel 1897 ai Greci di Alessandria d’Egitto per invito dei letterati di quella comunità greca. Con questo suo viaggio ad Alessandria egli completava le sue nostalgiche peregrinazioni culturali per le coste del Mediterraneo orientale, dove, sebbene tagliati fuori dal suolo della Madre Patria, continuavano a rimanere accesi focolari di ellenismo. Infatti secondo quanto egli stesso afferma nella sua conferenza al Parnassòs, era stato anche in Asia Minore fin dal 1883. nella sua produzione molteplice e varia un valore particolare ha un contributo che egli portò agli studi neoellenici in Italia. Una rassegna dei suoi studi editi e inediti, sebbene non del tutto completa, fece il Gabrieli nel 1918 nella rivista “ Roma e l’Oriente”.

Faro di S. Maria di Leuca

Oltre alla svariata attività nel campo delle lettere, dell’arte, della storia e della politica, sparsa in libri e in riviste, alcune da lui stesso fondate, in giornali e in opuscoli anche in lingua francese, e alle sue traduzioni in greco calimerese da testi di Dante, Goethe, Shelley, Poe, Carducci, Coppèe ed oltre alla raccolta di materiale folkloristico di prose e poesie greco salentine, va messa in evidenza soprattutto la sua produzione di eleganti e fedeli traduzioni dal greco moderno di opere di Paparrigopulos, Vernardakis, Valaoritis, Vikelas, Drosinis, Palamàs, dell’Alfabeto dell’Amore o Canti Rodii dal greco Medievale. Per l’insegnamento del greco moderno in Italia egli fece un ottima traduzione della grammatica del Petraris per la medesima collezione poliglotta del metodo Gaspey-Otto-Sauer edita nella città tedesca di Heidelberg. Ma come giustamente osserva il Gabrieli, “la mira principale e quasi il sogno della sua operosità letteraria fu appunto di restaurare la cultura greco-salentina sia raccogliendone amorosamente tutte le reliquie psicologiche, storiche e lessicali, sia tentando di ridar nuova vita al dialetto greco della sua patria”.

Galatina: il Chiostro della Chiesa di S. Caterina

In questo programma rientrano appunto le sue conferenze ai Greci e particolarmente quella tenuta nella sala del Circolo Filologico Parnassòs. Messi in evidenza gli sforzi compiuti per ravvivare il dialetto greco salentino, egli passa a dimostrare come nella Sicilia e nell’Italia meridionale permangano profonde tracce dell’antico ellenismo classico e bizantino sia quanto all’elemento architettonico sia riguardo all’elemento linguistico ed etnografico. E davanti alla sua fantasia balzano più che mai vivi i ricordi classici, i monumenti, i miti e le leggende, e Trapani, e Agrigento, e Siracusa, e Taormina, e l’Etna, e Scilla, e Cariddi, e lo Stromboli, e la ninfa Aretusa, e il mito pastorale di Dafni; nella sua rievocazione non sai se ammirare più l’erudizione o il volo lirico dell’immagine alata. Egli si trasferisce nostalgicamente nel passato e dai quei luoghi vede sorgere, come per incanto, le vagheggiate immagini del suo sogno, e quelle figure, più che vivere in un mondo reale, sembrano statue plasmate dalle mani di un antico scultore greco.

La seconda parte della conferenza è dedicata alla vita, ai costumi della colonia greca del Salentoche verso la fine del secolo scorso contava più di 25 mila abitanti che parlavano greco con una propria civiltà e una propria cultura, e si sviluppò spiritualmente ed ebbe una vera ed autentica letteratura poetica di cui ci sono rimasti pochi resti conservati di generazione in generazione per tradizione orale e in uno stato molto diverso da quello che erano un tempo. Nonostante la dolorosa ed amara convinzione che l’ellenismo di questi villaggi sarebbe stato cancellato ed assorbito irreparabilmente dalla lingua italiana, tuttavia il Palumbo sperava ancora nell’aiuto dei Filelleni e dei Greci in particolar modo, ed additava l’istituzione di scuole come l’unico mezzo per risollevare le sorti della nostra colonia e per dar vita al languente ellenismo di Terra d’Otranto. Poca cosa sarebbe stata la pubblicazione delle reliquie linguistiche e letterarie da lui raccolte. “ Ma io non desideravo – egli conclude – che quello che dovrà erigersi sia un monumento di morte, bensì il monumento di una vita trascorsa nell’isolamento, lontano dai parenti, che serva da superbo e dolce ricordo per l’avvenire, quando, riacquistando la coscienza greca, i miei concittadini, pur vivendo tra italiani, potranno vantarsi d’essere greci. La colonia greco-salentina rifiorendo, sarebbe un ornamento di più per la bella e grande Madre Italia. Con queste nobili parole egli terminava la sua conferenza alla sala Parnassòs nel1896.

Tra i colti discendenti della piccola Grecia di Terra d’Otranto, Vito Domenico Palumbo è senza dubbio colui che più di tutti fu attratto continuamente da uno slancio d’amore verso l’antica Madre Patria greca, e che, ripercorrendo le tappe della storia, si sentì ricongiungere spiritualmente ai suoi nobili antenati e richiamare, con impeto invincibile, verso il suolo della vicina Grecia, da un profondo nostalgico sentimento di fratellanza. Il Gabrieli, chiamandolo “ ultimo rappresentante della cultura greco-salentina”, seppe penetrare nello spirito e nello scopo fondamentale dell’opera che occupò e travagliò la sua vita di studioso.

Come il poeta Rutilio Namaziano degli ultimi tempi della romanità cantò con animo afflitto l’elegia suprema sull’inevitabile tramonto della grandezza della Roma pagana, così il Palumbo fu l’ultimo sconsolato cantore ed esaltatore dell’antico e nobile ellenismo della nostra terra, naufragante nel mare magnum della civiltà italica.
Non saprei dire da quando il Palumbo cominciò a studiare il greco moderno. Ma si può supporre che questa sua passione per la lingua neoellenica sia sorta in lui fin da quando fece i primi progressi per la conoscenza del greco antico, cioè dagli anni in cui frequentava le scuole medie. In un suo diario del 1873 egli accenna a suopi incontri con greci nel treno lungo il tratto ferroviari Bari – Brindisi.. Erano evidentemente greci che venivano dalla loro patria oppure vi ritornavano imbarcandosi a Brindisi.

Di tali incontri ebbi anch’io, quando ero studente universitario e viaggiavo in treno lungo la linea adriatica per recarmi in Toscana. Anche in me, ricordo, l’amore per la lingua greco- moderna sorse da quando frequentavo il liceo; ma soltanto a Pisa, dove mi fu dato di conoscere molti studenti greci, cominciai ad appassionarmi allo studio del greco moderno. Tale studio al Palumbo ( come accadde anche a me ) fu reso più agevole dal fatto che egli proveniva da una terra dove si parlava il greco, sia pure alterato.
Sebbene tra le carte del Palumbo esistano quaderni manoscritti di precedenti esercitazioni, tuttavia la sua prima pubblicazione è del 1879 e consiste in una traduzione dal titolo “ Vita- Sogno “, un brano drammatico tolto dalla commedia “ Agorà” di Dimitrios Paparrigopulos. Questo poeta, dopo la presentazione che ne fece il Palumbo, ebbe molta fortuna in Italia: se ne occuparono successivamente con articoli e traduzioni, il Gemma, il Garlato, il De Gubernatis, il Crivellari, il Cazzato, il De Simone Brouwer e il Cessi. Il brano drammatico tradotto dal Palumbo fu poi ripubblicato nella sua prima raccolta dal titolo “ Traduzioni dal greco moderno” nell’edizione del Gerhard nel 1881 a Lipsia. Ivi sono comprese anche alcune liriche dello stesso Paparrigopulos, del Wikelas, un carme anonimo medievale ed alcuni canti popolari.

La traduzione del Palumbo ha un’agilità e una freschezza tutta giovanile che la distingue da tutte le altre traduzioni fatte in Italia: vibra nelle parole l’impeto e la passione di chi prende vivissima parte al tema ivi trattato, molto affine in verità ai soggetti delle “ Operette morali “ di G. Leopardi. Erano del resto i temi che interessavano molto la gioventù di allora. Allo stesso modo sull’inizio del 1800 i giovani si appassionavano alla lettura de “ I dolori del giovane Werther” del Goethe e delle “ Ultime lettere di Jacopo Ortis” del Foscolo. Anche il Palumbo, come egli stesso dice del Paparrigopulos, era stato alla scuola di Byron, di Leopardi e di Musset e si era forse ribellato al

“ brutto poter che ascoso a comun danno impera”

Queste traduzioni che, secondo il piano del Palumbo, forse dovevano costituire un primo saggio della grande Antologia da lui annunciata nella prefazione, segnano il passaggio a un’altra raccolta di traduzioni, che è del 1882, cioè allo “Alfabeto dell’Amore” , canti popolari Rodii in greco medievali

Per quanto riguarda la forma di questi canti il Palumbo, oltre ad essersi presa qualche libertà poetica, come egli stesso afferma, ha cercato, per quanto ha potuto, di dare alla traduzione l’intonazione e il giro dei canti popolari toscani, eccettuati alcuni ai quali ha dato “ altra forma, perché la traduzione è venuta di primo acchito”.
La spontaneità è tale che le eleganti traduzioni del Palumbo danno l’impressione di essere dei canti originali e di prima ispirazione, come questo che sto per leggere:

“ Bel cipresso dai trenta rami d’oro,
cipresso bello dalla larga fronda,
che con la rugiadosa ombra profonda
e l’aer soave dai dolce ristoro;
giardin pieno di rose e verzura,
melo carco di poma saporose,
schiudi le rame giovani e pompose,
ch’io mi riposi nella tua frescura”.

Come si sa, il primo a scoprire “ L’Alfabeto d’Amore” fu Wilhem Wagner, nel 1878, in un manoscritto del British Museum di Londra, e il primo a dare notizia di questa scoperta fu in Italia Ruggero Borghi, che pubblicò un articolo nel 1880 nel “ Fanfulla della Domenica” di Bologna. Il fatto sta che il Borghi stesso in una sua raccolta di articoli critici intitolata “ Horae Subsecivae”, ritorna ancora sull’argomento e riferisce con compiacimento alcuni suoi giudizi sull’ottima traduzione fatta dal Palumbo e si vanta d’avergliene data lui per primo l’idea e ritiene la traduzione italiana del Palumbo superiore a quella tedesca del Wagner. Analogo giudizio esprime il grande etnografo Angelo De Gubernatis che scrisse la prefazione a questi canti del Palumbo e ne riportò le traduzioni nella “ Antologia lirica e Antologia drammatica” della sua “ Storia universale della letteratura”.

E bisogna pur riconoscere che il Palumbo, giovane com’era, e così lontano dai Centri di Cultura, coi quali tuttavia era sempre in contatto, si cimentò in un tema abbastanza arduo e di grande attualità per la Grecia: la scoperta dei canti popolari greci del Medio Evo, così originali e così freschi d’ispirazione, costituiva uno dei problemi più importanti della letteratura greco-bizantina e moderna in un periodo nel quale era in pieno fervore lo studio della lingua popolare in contrasto con la lingua dotta.. “ La sorpresa- dice Palumbo- fu grande per tutti; fu quasi una rivelazione. Dunque il Medio Evo non ci aveva dato finora che romanzi pseudocavallereschi, e lungagnate poetiche e rimerie insulse, aveva anche in serbo della poesia per davvero, della poesia piena d’ardore e di fiamma addirittura? “ . In verità piena d’ardore e di fiamma era anche la sua giovanile traduzione dei Canti Rodii, seconda in ordine di tempo, dopo quella del Wagner, il quale aveva preso non pochi abbagli, stando alle osservazioni del Borghi, e alla critica che ne fa il Palumbo nelle note della sua prima edizione

Sull’opera del Palumbo si espresse favorevolmente anche Giuseppe Morosi, professore dell’Istituto Superiore di Firenze, e quel che più conta, mostrarono il loro favorevole apprezzamento anche illustri studiosi stranieri, come Gustavo Meyer su “Algemeine Zeitung” del 1882, il De Arlez professore all’Università di Louvain e direttore della rivista “ Museon”, di cui era anche collaboratore il Palumbo, il Boltz in “ Ellas” di Amsterdam, alcuni giornali di Atene, come il “ Thelegraphos”, l’Ephimeris”, l’Akropolis”, ecc, e infine due dei più competenti bizantinisti e neoellenisti d’Europa, l’Esseling e il Pernot. Questi studiosi, giudicando l’opera del Palumbo soprattutto dal punto di vista dell’interpretazione, completavano, per così dire, i giudizi dei critici italiani, i quali l’ammiravano soprattutto dal lato artistico. Ma soltanto l’Hesseling e il Pernot, che avvantaggiandosi dell’esperienza altrui, tentarono molto più tardi, e cioè nel 1912, la stessa fatica, poterono comprendere in quali difficoltà si fossero imbattuti i loro predecessori e con quale sensibilità e profondità d’intuito il Palumbo avesse saputo superarle.

Riconoscevano infatti la superiorità della traduzione di quest’ultimo su quella del Wagner, pur ammettendo le riserve dell’ellenista Nicola festa circa il modo di tradurre. Ma Nicola Festa non aveva nulla da ridire sul valore intrinseco dell’interpretazione del testo, e aveva il torto, comunque, di non aver tenuto presente che il Palumbo era un traduttore poeta; e mentre il Palumbo fu il primo dopo il Wagner a tentare la traduzione poetica, quando ancora taceva ogni dubbio sulla critica di un testo così difficile, il Festa giunse alla conclusioni almeno una ventina d’anni dopo la pubblicazione del Palumbo.
Dopo i canti popolari e la produzione letteraria del Wikelas e del Paparrigopulos, l’altro poeta neoellenico romantico per il quale il Palumbo ebbe particolarmente simpatia fu Aristotele Valaoritis, “ il poeta popolare greco, il cantore della nuova e grandiosa epopea del rinascimento ellenico, colui che ha chiesto alla appassionata e fine musa cleftica, figlia gloriosa della libertà, tutte le sue ispirazioni”.

I poemetti intitolati “ Eutimo Vlacava”, “ Samuele”, “ Dimo e il suo fucile” egli li tradusse con endecasillabi sciolti, ( salvo alcune parti di contenuto esclusivamente lirico ) “ perché secondo lui, è questo il nostro verso eroico” ; ma quando si trattò di tradurre il poemetto “ Fuga” , composto in un metro e in una strofa che ha corrispondenti nella lingua italiana, egli allora preferì attenersi a una forma analoga a quella originale, intrecciando per di più in modo stupendo le rime delle quartine. La poesia come sapete, si riferisce alla sanguinosa battaglia del 20 luglio1792 e alle perdite inflitte allora all’esercito di Alì Pascià dai Suliotti comandati da Lambros Zavella. Alì Pascià, sconfitto, abbandona il campo di battaglia e “ pallido e scapigliato”, come avrebbe detto il nostro Leopardi, fugge vilmente per riparare a Iannina. E’ inutile dire che la traduzione italiana qui è superiore alla creazione originale.

L’ansia di Alì Pascià e l’onda precipitosa del galoppo del suo cavallo Ati esprimono in modo stupendo nel decasillabo precipitoso e accavallatesi la tragica vicenda del cavallo in fuga. Alì Pascià nella sua fuga trasmette al cavallo tutto il suo spavento, mentre gli par di vedere dovunque Zavella e il lampeggiare della sciabola dei guerrieri greci. I versi scorrono rapidi e incalzanti come il galoppo:

“Tutto al fuggente reca spavento;
le membra bagnagli freddo sudor…
Ati s’inalbera: lo regge a stento:
un lupo fremere fè il corridor.
Le mani stringe forti alla sella,
che pargli ovunque veder Zavella:
dovunque pargli veder brillare
lame che snudansi al suo passare.
Siccome l’onde, ne le tempeste,
la notte a perdersi ne l’ombra van,
che se ne scorgono solo le creste
bianche di spuma lontan lontan;
così il cavallo, per quella sera,
passa com’ombra nell’ombra e va;
com’onda gonfia, com’onda nera;
spuma ha la barba di Alì Pascià

Il Palumbo esaltò la sua terra in tutte le manifestazioni culturali, ma come avrete potuto dedurre da questa mia ricerca, egli amò soprattutto la sua Patria come discendente dell’antica madre Ellade, alla quale voleva risalissero con il pensiero i suoi conterranei sì da acquistare coscienza della loro nobilissima origine greca. A coltivare gli studi neoellenici in Italia e a mantenere vivi i contatti con i rappresentanti della moderna cultura della Grecia egli fu il più solerte studioso tra i nostri dotti salentini. Quanto a me, che mi lusingo di perseguire ardentemente i suoi medesimi scopi nella comune patria greca che mi ha dato i natali, mi ritengo oltre ogni dire fortunato di averlo qui ricordato davanti a voi che avete voluto gentilmente ascoltare questa mia rievocazione.

Nell’introduzione a un suo libro di contenuto politico del 1912, intitolato “ L’Europa delinquente” dove tratta della questione orientale e della spudorata politica delle potenze europee a favore della Turchia e ai danni della Grecia e degli stati balcanici, egli dichiara che due sono state le ….sante o le dee, alle quali fu sempre devoto nella sua vita, e cioè la verità e la logica e si duole di non poter aggiungere la terza, la Giustizia, per avere una triade perfetta, perché, come si sa, ad superos Astrea recessit e l’ha sostituita sulla terra una falsa larva che ne ha usurpato il nome e gli uffici, e fatta aristocratica è andata ad abitare in palazzi grandiosi e sontuosi. “ Io ho appena – egli dice – una piccola casetta, umile e semplice ricovero della mia esistenza, dove quelle due dee democratiche e alla buona vengono a starmi vicine e si acconciano alla meglio, come possono, e nel mio angusto studiolo si adattano pure a sedersi sulle rozze seggiole anche se ingombre di scartafacci e di vecchi libri “.

Come quasi tutti gli uomini i quali hanno fatto dello studio disinteressato e nobile la loro principale passione e lo scopo di tutta la loro vita, il Palumbo trascorse gli ultimi anni nella miseria e nelle sofferenze e morì nella sua modesta e umile casa paterna di Calimera, dove oggi, per mia iniziativa e per volontà della locale Amministrazione comunale, è stata dedicata alla sua memoria una lapide da me dettata così:

In quest’umile casa
accanto alla sua mamma e ai suoi libri
soli e grandi amori
della sua povera esistenza solitaria
visse
dal 22 aprile 1854 al 2 marzo 1918

VITO DOMENICO PALUMBO
Letterato ellenista poeta
animatore del risveglio culturale greco-salentino

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