Il viaggiatore insonne

Sandro Penna

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Sandro Penna nacque il 12 giugno 1906 a Perugia, dove trascorse la giovinezza compiendo studi irregolari. Nel 1929 si trasferì a Roma, città nella quale visse sino alla morte (salvo una breve parentesi milanese), esercitando i più disparati mestieri.

Le prime liriche di Penna uscirono su «L’Italia letteraria», nel ’32. Se ne deve la pubblicazione alle premure di Umberto Saba che fraternamente lo incoraggiò a coltivare il dono della poesia. Ci sono rimaste, di quegli anni, alcune lettere che oltre a essere un documento letterario, costituiscono anche la testimonianza di un’amicizia, come traspare dal tono affettuoso, talvolta svagato e scherzoso, dell’epistolario. Così il 23 novembre 1932 il poeta triestino scriveva a Penna: «Ho copiato le tue nuove poesie in un fascicoletto che ora gira per le mani dei miei amici. Tutti quelli che l’hanno letto, Stuparic, Giotti e altri che non conosci, sono rimasti entusiasti. […] Ti vedo sempre con la tua valigetta, le tue nove meravigliose poesie, e poca (non molta) nevrosi. O leggero Penna, tu non sai una cosa: non sai quanto t’ho invidiato!».

Solamente nel dopoguerra, però, uscirono le raccolte più significative di Penna: nel ’56 Una strana gioia di vivere, nel ’58 Croce e delizia. Per dodici anni il poeta non pubblicò altri volumi di versi: fino al ’70, quando da Garzanti apparve il libro Tutte le poesie, che comprendeva le raccolte precedenti e importanti inediti.
Dopo il ’70, nel frattempo, intorno al personaggio Penna, al vecchio poeta malato e vagabondo, alle sue difficili condizioni di vita, si rivolgeva l’interesse di molti intellettuali italiani, i quali in un appello sul quotidiano romano «Paese Sera» esprimevano l’urgente necessità di occuparsi di lui, ormai «ammalato e in condizioni di estrema indigenza».

Le ultime due raccolte del poeta furono pubblicate postume: nel ’76, a pochi mesi dalla morte, uscì Stranezze; infine, nell’’80, Confuso sogno.

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Ciò che colpisce immediatamente il lettore di Penna è la sua posizione appartata nel panorama della poesia italiana contemporanea, la sua indifferenza nei confronti delle mode culturali.

La poesia di Penna, estranea all’Ermetismo e alle poetiche del Novecento, è — pur nella sua limpidezza — enigmatica e quasi miracolosa, nel senso che è assai difficile coglierne il retroterra letterario. Non è ancor chiaro, infatti, dove essa affondi le proprie radici. Il poeta Bigonciari, non a caso, la paragonò a un «fiore dal gambo invisibile».

I lirici greci, ma anche Leopardi e Rimbaud, fanno sicuramente parte della sua cultura poetica, e poi Saba, ma il Saba più melico delle Canzonette — «Baciami sulla bocca, ultima estate./Dimmi che non andrai tanto lontano/Ritorna con l’amore sulle spalle/Ed il tuo peso non sarà più vano», recita una delle indimenticabili poesie di Penna.

«Poeta esclusivo d’amore», come egli stesso si è definito, Penna canta con ossessiva levità l’amore per i ragazzi («i bianchi marinai», «il tenero garzone di fornaio», «l’adolescente odoroso di fichi»…), mai — però — l’amore per uno solo.

La sua poesia è popolata di figure di ragazzi, ritratti nella grazia inquieta dell’adolescenza — «Tu morirai fanciullo ed io ugualmente/ma più belli di te ragazzi ancora/dormiranno nel sole in riva al mare», «Fuori il vento toccava le case degli uomini, le lente migrazioni dei fanciulli…».

Anche i luoghi, i paesaggi cantati da Penna ritornano in modo ossessivo — sempre gli stessi, indimenticabili: le strade e le piazze di Roma, le sale buie dei cinematografi, i bar anonimi della periferia, i tram affollati, i «neri treni», la verde e umida campagna, i bianchi marmi dei ponti, e ovunque il respiro del mare, il mormorio del fiume nel quale si riflettono le luci tremolanti della sera.

La poesia di Penna — ha osservato Pasolini — è costituita da «un delicatissimo materiale fatto di luoghi cittadini, con asfalto ed erba, intonaci di case povere, interni con modesti mobili, corpi di ragazzi coi loro casti vestiti, occhi ardenti di purezza innocente […]».

Da un punto di vista linguistico le liriche di Penna sono, in piena coerenza con le tematiche, decisamente orientate verso un esasperato monolinguismo. Si tratta di un linguaggio che fonde il colto e il popolare, l’aulico e il quotidiano: una scelta già operata da Saba e, più tardi, da Caproni.

Ancora restano da sondare, da parte della critica, i rapporti di Penna col melodramma. Ma certo è che la musica e i libretti d’opera non dovettero essere estranei al suo mondo poetico, perché qua e là sembra di cogliere — come del resto in tanta poesia di Saba — non solo l’eco di Metastasio, ma addirittura un piglio più fiero, quasi verdiano. Tuttavia, per quanto si cerchi di esplorare i territori dell’opera di Penna, essa rimarrà per noi sempre un enigma capriccioso e impenetrabile, anche nelle sue poesie in apparenza più trasparenti, anche là dove, come recita un suo verso, «il sole brilla sereno sugli oggetti»: in realtà Penna è un poeta del mistero.

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